Altoatesine con il velo e la pelle scura: storie quotidiane di razzismo

“Su tre bambini nati a Bolzano uno è straniero. Proviamo a ripeterlo in altro modo per evitare di fissarsi sul numero. Ogni tre bambini nati QUI, uno è considerato straniero e se non cambiano le leggi lo resterà fino alla maggiore età anche se non uscirà mai dai confini provinciali o nazionali. Bambini nati qui, che studieranno qui, che saranno collocati all’interno di una delle tre comunità linguistiche (italiana, tedesca o ladina secondo i principi della proporzionale etnica), ma che comunque resteranno stranieri». Così si concludeva la prima puntata di Alto Adige doc, annunciando al contempo che saremmo tornati sul tema per scoprire come vivono gli stranieri nati a Bolzano.

Purtroppo la ricerca è stata più complicata del previsto, si tratta di ragazzi in grandissima parte minorenni e in gran parte sotto i quindici anni. Intervistarli non è semplice e far comprendere la logica dell’inchiesta ancora meno. In queste settimane sono riuscito a parlare solo con un ragazzo di origini filippine, nato a Napoli ma residente a Bolzano, che ci aveva sottolineato come i problemi riguardassero essenzialmente le maggiori difficoltà nell’uscire dai confini nazionali, ovvero nell’ottenimento dei documenti necessari.

Ad aiutarmi a risolvere il problema è arrivata la presentazione di un convegno organizzato dall’Eurac e intitolato “Mettere radici in Alto Adige: esperienze e sfide dei ragazzi di seconda generazione”. Si è tenuto lo scorso 10 maggio e ha raccolto e presentato alcune esperienze dei diretti interessati «per farle diventare spunti utili a migliorare le politiche nell’ambito delle pari opportunità». Al termine del convegno è stata diffusa una relazione intitolata “Dalla scuola al mondo del lavoro: percorsi di transizione di giovani con background migratorio“. Nonostante il titolo non particolarmente “accattivante”, la pubblicazione, a cura di Martha Jiménez-Rosano e Johanna Mitterhofer, contiene una notevole quantità di informazioni interessanti. Ce le siamo fatte sintetizzare da una delle autrici.

Incontro Johanna Mitterhofer al bar dell’Eurac sperando di non doverle tirare fuori le parole con le tenaglie e auspicando un linguaggio non troppo tecnico. I ricercatori e i giornalisti, spesso, non hanno rapporti idilliaci: i primi accusano i secondi di essere grossolani e poco attenti, i secondi consigliano ai primi di provare ad utilizzare un linguaggio comprensibile anche a chi non passa le giornate in un laboratorio di ricerca.

Con Johanna Mitterhofer il problema non si è mai posto, sarà che è un’antropologa, ma al linguaggio e chiaro preciso unisce una passione per l’argomento che le brilla negli occhi. Per una volta, però, siamo partiti dalla fine, dalle conclusioni: «I risultati sono stati di diverso tipo – premette –  ma credo sia importante sottolineare come non si possano trattare i giovani appartenenti alla seconda generazione come un gruppo unitario con un’identità fissa. Detto questo, abbiamo verificato che per integrare i ragazzi non è sufficiente che imparino le due lingue ufficiali dell’Alto Adige. Non è così semplice. Se si indossa un velo o se si ha la pelle nera, tutto può risultare più complicato del previsto».

Gli esempi sono diversi, alcuni sono inseriti nella relazione, altri provengono da altre fonti. In sintesi, citiamo la testimonianza di Mohamed a cui è stato offerto un lavoro a condizione che sulla sua targhetta scrivesse Max, al ragazzo di origini africane a cui offrono solo posti che non lo mettano a diretto contatto con il pubblico, fino alla ragazza islamica a cui si dice chiaramente che se vuole il posto di lavoro deve togliersi il velo. A questo si aggiungono una serie di “piccoli” episodi di razzismo quotidiano su cui i ragazzi di “seconda generazione” provano a scherzarci sopra. «Riguardo a questi atteggiamenti – precisa Johanna Mitterhofer – crediamo sia importante sensibilizzare i ragazzi sui loro diritti, spiegando che le discriminazioni sono illegali e che possono rivolgersi a qualcuno per far valere i loro diritti. Per questo, deve nascere il centro anti-discriminazioni, serve una istituzione che raccolga le varie segnalazioni al riguardo per comprendere se queste discriminazioni siano diventate sistemiche».

Un centro che in Alto Adige fatica a nascere nonostante l’esplicito appello consegnato al presidente del Consiglio Provinciale e firmato da ventisette associazioni. Al momento è la classica “lettera morta”.

sharoom

Un punto della relazione sembra però ancor più importante, la transizione tra scuola e lavoro. «Sì, è passaggio fondamentale – sottolinea la ricercatrice dell’Eurac – . L’integrazione e in gran parte delegata alla scuola e  i ragazzi, una volta terminati gli studi, escono da una realtà in cui sono tendenzialmente trattati come tutti gli altri, per entrare in una molto diversa in cui, come abbiamo visto, non mancano le discriminazioni. Ma i problemi non si limitano a questo. Un altro riguarda la rete sociale delle famiglie immigrate. Andrebbe migliorata perché in molte località dell’Alto Adige il lavoro si trova tramite conoscenza personali, relazioni da cui le famiglie di nuovi cittadini sono spesso escluse. Servono quindi progetti ad hoc che aiutino i ragazzi a uscire da questa bolla. La nostra ricerca, pur non avendo valore statistico, ha mostrato come siano pochissime le persone velate che lavorano in ufficio e pochissimi gli stranieri che lavorano nel più importante datore di lavoro dell’Alto Adige: la Provincia. Servirebbero programmi specifici per risolvere questi problemi, perché solo attraverso il lavoro si può arrivare ad una integrazione positiva negli anni post-scolastici».

Alcuni dei 23 ragazzi con background migratorio intervistati per la ricerca hanno accettato di rispondere ad alcune domande in video. (Lo trovate qui )

Quel che emerge maggiormente dai pochi minuti del video, è come per questi ragazzi la gara risulti spesso “truccata”. Oltre alla lingua madre (spagnolo, arabo etc) parlano italiano, tedesco, a volte anche dialetto, e molto spesso anche l’inglese, nonostante questo faticano molto più degli altoatesini o sudtirolesi a denominazione di origine controllata a trovare lavoro, spesso per i motivi sottolineati in precedenza. Ma un altro aspetto sembra avere un effetto pesante sulla quotidianità di questi ragazzi: i genitori hanno fatto (e continuano a fare) sacrifici enormi per garantire un futuro dignitoso ai loro figli e in maniera più o meno esplicita si aspettano che i loro figli non si facciano spaventare dalle difficoltà. Come sottolineato da una delle ragazze intervistate: «Il fallimento non è previsto».

Massimiliano Boschi

Quasi tutto quel che di importante e “speciale” accade in Alto Adige viene letto, spiegato e persino giustificato, con quanto avvenuto nel passato. Oggi come venti o trent’anni fa. Una “lettura” che può funzionare finché si discute di proporzionale etnica o di toponomastica, ma che oggi risulta fuorviante. E’ sufficiente camminare per le periferie del capoluogo o visitare Fortezza, Salorno o il Brennero per comprenderlo. Sarà fuori moda, ma per sostenere una tesi occorrono fatti, dati e circostanze. Per questo è nato AltoAdige.doc. Ecco la terza inchiesta, la prima riguardava l’ospedale di Bolzano, la seconda ci ha raccontato come leggere il passato a volte ci porti a capire meglio fenomeni (e loro pesi) attuali. La terza puntata è stato un viaggio… in Calabria, o meglio nell’enclave calabra (ma non solo) formata dai lavoratori del BBT. Operai che fanno un lavoro massacrante, lontani da casa. Perché costruire il futuro, ancor oggi, passa spesso attraverso sudore e sacrifici. La quarta, invece, è stato un viaggio nella toponomastica: probabilmente un falso problema, ecco perché. Ma il tunnel di base del Brennero, e il mondo che ci sta accanto, ha fatto molto parlare di sé. E noi ci siamo tornati per il quinto articolo. Mentre abbiamo cambiato argomento per l’ultimo nostro approfondimento: un’intervista alla procuratrice capo del Tribunale dei Minori di Bolzano. Per capire, o meglio cercare di farlo, le vere radici di fenomeni di violenza giovanile. Nella sesta puntata abbiamo raccontato la storia di K., e delle sue peripezie, per poi virare sul turismo (e la sua venerazione) e sul melting pot culturale di Fortezza, esempio altoatesino di dinamiche – sorpassate e inefficaci – di integrazione linguistica. Siamo passati poi a parlare di turismo e centri storici che diventano «nomadi», per virare – leggermente – poi sul Treno delle Dolomiti e l’importanza della sua realizzazione. Sempre in tema di trasporti ecco l’approfondimento su Flixbus e la sua prima partnership italiana, a Siusi. 

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