La vita nelle città e la scrittura nel teatro. Intervista a Graziano Graziani

Non è facile intervistare Graziano Graziani, perché ci si confronta con con chi è bravissimo a fare parlare gli altri, nei suoi libri, ma non solo. E’ una delle voci di Fahrenheit di Radio 3 e ha pubblicato libri inusuali per il panorama editoriale italiano. Tra i più recenti: “A Venezia. Da Brodskij a Bolaño” (Perrone editore 2021) “Planimetria essenziale del disastro” (Tic 2021) “l’Atlante delle micronazioni” (2015) e “Catalogo delle religioni nuovissime(2018)” entrambi per Quodlibet.
Libri in cui Graziani si dimostra abilissimo nell’indicare punti di osservazione alternativi e intelligenti senza diventare ingombrante, senza impallare la “vista”.
Come critico ha realizzato diverse raccolte dedicate al teatro contemporaneo come Hic Sunt Leones. Scena indipendente romana (Editoria e Spettacolo, 2007) e Zone teatrali libere (Editoria e Spettacolo, 2010) e le raccolte di testi di Daniele Timpano Storia cadaverica d’Italia (Titivillus, 2012) e del duo Deflorian/Tagliarini Trilogia dell’invisibile (Titivillus, 2014), il libro intervista a Oscar De Summa Ferita di parole (Caracò, 2019).

Proprio a causa del teatro è tornato a Bolzano. E’ uno dei docenti della seconda edizione di “Scritture” che riparte, più o meno, da dove l’avevamo lasciata l’anno passato, dal tentativo di allontanare i giovani autori “dall’autoriflessione generazionale e da un certo sconforto e ripiegamento” che, secondo Lucia Calamaro, avevano caratterizzato molti testi della precedente edizione.
“I partecipanti – premette Graziani – hanno già una loro idea di teatro e lavorano collettivamente in questo periodi di formazione, ma, in effetti, il mio lavoro si è concentrato sul fornire nuovi approcci tematici e teorici non solo dal punto di vista drammaturgico. Abbiamo parlato di argomenti diversi, di storia, fisica, biologia e molta antropologia, vista la mia formazione personale”.

Un tentativo di allargare gli orizzonti?
“Gli organizzatori di Scritture, Lucia Calamaro e i direttori dei teatri coinvolti hanno notato una forte prevalenza di storie famigliari e sentimentali, di ambientazioni legate all’oggi. Tutto sembra avvenire in quel presente eterno e astorico che è la famiglia italiana. Abbiamo quindi provato a superare questo “racconto del sé” per rendere i testi più interessanti, per renderli teatrali. A questo scopo ho proposto un un percorso molto variegato, da Carlo Ginzburg a Mark O’Connell, sui miti e sui complotti che sono forme del mito contemporaneo. Questo non significa imporre i temi da trattare, ma più semplicemente allargare lo sguardo. Il teatro deve essere consapevole di cosa portano avanti la ricerca storica, scientifica, antropologica e il dibattito politico. Insieme a questo, ho cercato di innescare un dibattito tra i partecipanti per mettere a fuoco le questioni nel miglior modo possibile”.

Le lezioni di “Scritture” al Teatro Comunale di Bolzano (Foto di Elena Beregoi)

Il tuo è uno sguardo sul mondo molto particolare e originale. Lo hai dimostrato nell'”Atlante delle Micronazioni” ma anche in “A Venezia. Da Brodskij a Bolaño” e nei tuoi scritti sul Portogallo. Hai mai pensato di “raccontare” l’Alto Adige?
“Non ci ho mai scritto perché non lo conosco abbastanza. Non ho una frequentazione tale da permettermi di scriverne con cognizione di causa, ma lo trovo molto interessante come tutte le zone di confine”.

In “A Venezia. Da Brodskij a Bolaño” hai raccontato i “fantasmi” di Venezia, che non sono necessariamente degli spettri. Una Venezia che non è necessariamente quello che sembra a prima vista e che sembra tutta concentrata sul proprio passato, senza un’idea di futuro.
“Non ci può essere futuro se l’unico modello è quello turistico che si limita a provare a sfruttare al massimo quello che c’è provando a ridurre l’accesso unicamente a chi ha più soldi da spendere. Ma scriveva William Shakespeare nel “Coriolano: What are cities but not people? , cosa sono le città se non le persone? Vogliamo che si continui a sfruttare all’infinito la bellezza di Venezia come fosse una miniera? Si continuerà a lavorare per farla diventare un museo per super ricchi o una nuova Disneyland? E’ questo il futuro che vogliamo?”

Come evidenzi nel libro, sono problemi che Venezia affronta da almeno un secolo ma mostri anche dove trovare i necessari anticorpi…
“Sì, per sua conformazione geografica e storica, Venezia ha una dimensione pedonale e una concentrazione attività culturali che la renderebbero ideale per lo smart working, sarebbe già una città di 15 minuti su cui stanno lavorando le maggiori metropoli europee…”.

Ma?
“Ma esistono due ordini di problemi. Venezia va ripensata come parte di un territorio più grande di cui fanno parte la laguna e Mestre. Gli abitanti continuano ad andarsene e questo processo va invertito. O si riflette sulle politiche abitative di tutto il territorio veneziano, oppure la scollatura tra centro e dintorni sarà sempre più ampia e il centro storico si trasformerà in un museo a cielo aperto. Già la prossima estate si proverà a far pagare un biglietto di entrata ai visitatori. Credo che, invece, occorra investire sull’ampliamento dello spazio pubblico, su chi crea momenti e spazi aggregativi lontani dalla logica estrattiva di cui parlavo prima”.

Ma a Venezia non emergono in maniera clamorosa gli effetti di logiche che riguardano tutta Italia?
“Sì, Il modello di gestione delle città italiane è disastroso e favorisce lo sfruttamento del centro storico. Probabilmente è colpa anche dell’eccessiva retorica sulla bellezza del nostro patrimonio culturale che ci spinge a mettere a reddito le bellezze artistiche.

Le politiche abitative sono scomparse dall’orizzonte?
“Mancano completamente e dettano legge gli immobiliaristi. Ma a Venezia, come in altre città, le scelte andrebbero condivise con chi ci vive. Le politiche urbane non possono mai cadere dall’alto, a Venezia le pressioni esterne sono più forti che altrove e il centro storico si sta spopolando. Forse quando non ci saranno più cittadini, ma solo pietre ci si accorgerà che queste non bastano a fare una città. Siamo fermi a un modello conservativo, ma il tema centrale è un altro”.

Quale?
“La vita delle città. Le città sono un luogo di condivisione, senza la condivisione non esiste la città. In qualche modo, quindi, la logica privata nega la città. Non dico che i privati non dovrebbero investire, ma la logica sottostante deve essere sempre quella che vede la città come spazio pubblico”.

I tuoi scritti sul Portogallo sembrano mostrare che un’altra strada è possibile.
“Il Portogallo è un paese dell’Europa meridionale, ma non è mediterraneo, è atlantico e guarda verso il mare con un approccio speciale. Ha una cultura simile a quella spagnola, ma con un grande senso civico e una spiccata coscienza ambientale, simile, ma non uguale a quella dei paesi nordici. Anche Lisbona sta subendo una gentrificazione feroce e le coppie giovani sono costrette a trasferirsi in periferia. Ma, per esempio, mentre in gran parte delle città europee le tariffe del trasporto pubblico sono suddivise in zone,  – più zone attraversi più paghi – nella capitale portoghese chi vive in periferia paga meno. Perché chi è stato costretto in periferia dovrebbe anche pagare di più gli spostamenti?
E’ l’esempio di come si possano gestire certi fenomeni in maniera diversa. I cittadini devono essere coinvolti nelle decisioni pubbliche per evitare scoramento e rassegnazione. Non si vive solo di divieti, una civile convivenza urbana si basa sulla partecipazione”.

Massimiliano Boschi

Foto di apertura @katestanworth

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