Le laiche "Scritture" del teatro del futuro. Intervista a Lucia Calamaro

Bolzano. Si è appena conclusa la prima edizione di “Scritture“, scuola itinerante di drammaturgia diretta da Lucia Calamaro. Una iniziativa promossa da Riccione Teatro con Sardegna Teatro, Teatro Bellini di Napoli, Teatro della Toscana e Teatro Stabile di Bolzano.
Proprio nel capoluogo altoatesino, sono stati presentati gli esiti finali di un lavoro durato sei mesi, in cui ciascuno degli allievi è stato accompagnato nella stesura di un suo nuovo testo per la scena.
In totale, nella sala prove del Teatro Comunale di Bolzano, sono state presentate quattordici drammaturgie originali di quattordici autori selezionati tra 257 candidati già attivi in ambito teatrale e interessati ad affinare le proprie capacità di scrittura tramite un corso di livello avanzato.

Mesi di lavoro che la regista e drammaturga Lucia Calamaro ha affrontato curando la “gestazione” e il “parto” conclusivo con un approccio preciso: “Ho svolto un lavoro di riordino e maieutica, invitando, quindi, gli autori a ricercare la verità dentro loro stessi in maniera il più possibile autonoma. Ho cercato di tirare fuori tematiche che già possedevano non necessariamente autobiografiche. Un lavoro ad personam perchè non tutti procedono con lo stesso passo, non parlano tutti delle stesse cose”.

All’interno di quale cornice?
Non abbiamo cercato l’autobiografismo nè lo story telling. Serve una visione del mondo per essere un autore, particolarmente per diventare un autore di teatro. I loro percorsi inevitabilmente si sono scontrati con successi e fallimenti e non necessariamente posso essere il maestro di tutti, forzosamente, posso far fiorire solo la poetica di alcuni, non di tutti.

Consapevole di aver svolto un lavoro importante e necessario?
Sì, perché c’è un grande bisogno di nuova drammaturgia italiana e servono testi italiani corposi. Per un lungo periodo, dagli anni Novanta fino a dieci anni fa, la drammaturgia contemporanea italiana è stata considerata alla stregua di qualcosa di ermetico e incomprensibile dal largo pubblico. Non è accettabile che il contemporaneo sia necessariamente sperimentale, il teatro è presente al presente e per questo può raccontarlo.

Foto di Luca Guadagnini

Che tipi di testi sono stati presentati a Bolzano?

Non saprei definirli precisamente. Alcuni si somigliano perché hanno lavorato insieme e la creatività si è mischiata e contaminata, per questo ho parlato anche di un lavoro di riordino, ho riportato le idee là dove erano nate. Non ho identificato un genere preciso e ho cercato uno stile, i personaggi non possono parlare la lingua piatta del quotidiano, l’immaginario deve avere una forma. Da questo punto di vista, ho trovato alcune epifanie stilistiche molto forti e chiare. E’ una grande soddisfazione, la riflessione sull’impianto registico sarà successiva.

Sono stati presentati testi “generazionali”‘

Il problema esiste, è come se i primi testi che scrivono debbano parlare della loro generazione prima di poter passare al resto, è come se il problema generazionale li marchi. Va premesso che è un momento particolare, le giovani generazioni hanno prospettive corte e si sentono impantanate. Si annuncia la fine del mondo, si prevede un riscaldamento intollerabile e di conseguenza il giovane di oggi non vede la luce alla fine del tunnel, vede solo il tunnel. Credo che questo spinga forzatamente verso l’autoriflessione generazionale e verso un certo sconforto e ripiegamento. Quindi, questo aspetto c’è, ma non vale per tutti allo stesso modo e non mancano i “battaglieri”. Devo anche dire che la speranza sembra diventata una caratteristica femminile.

Il precariato rischia di restringere gli orizzonti?

E’ un nodo importante che viene affrontato dai testi, per questa generazione l’orizzonte è disperante. Il consiglio sarebbe quello di invitare ad andarsene all’estero, ma lo sforzo di creare questa drammaturgia è anche figlio della speranza di poterla esportare. Per esempio, spero permetta di evitare l’importazione di testi di autori inglesi che ci hanno letteralmente invaso grazie alla spinta del National Theatre britannico che spinge i suoi autori ovunque con un messianismo che potrei definire coloniale. Provo un forte fastidio quando vedo i che teatri italiani investono in autori inglesi. Lo scopo di Scritture è anche quello di creare un vivaio, una scuderia di autori a cui gli Stabili italiani possano attingere.

I talenti ci sono?

Sì, l’Italia è sempre in crisi quindi o canta o pensa. Questa continua sfida con i problemi forma un condominio di intelligenze che non va abbandonato, ma innaffiato e tutelato.

Non esiste un problema di esperienza, di vita vissuta?

La diminuzione dell’esperienza è leggibile a tutti i livelli della creatività. Spesso l’esperienza si riduce all’oggetto che la mediatizza, la vita è già vissuta e si svolge dentro al telefono. Ovviamente, la dimensione dell’esperienza è importante, ma viviamo da questo lato del mondo che si è costruito in una poetica della sicurezza non della libertà, di conseguenza lo spettro è quello della protezione e della sicurezza. E’ in questo contesto si è formata la loro lingua, quindi non c’è la fuga, lo scappare di casa, l’avventura, l’altro, lo sconosciuto. Spero che prima o poi si riesca a rompere questo schema, ma non so con quali mezzi.

I cosiddetti “nuovi cittadini” potrebbero dare una mano?

Sì, se l’Italia non fosse un paese razzista, provinciale e totalmente respingente che fa un lavoro di espulsione sistemica sia a sinistra che a destra. Io vivo nella capitale e posso dire che Roma è romanitudine, è la provincia dell’impero. L’Italia è un paese talmente chiuso – come mentalità, non come attitudini – che non credo che cambierà nei prossimi trent’anni.
Non va dimenticato, però, che del rapporto storico tra pena e penna. Si prende la penna in mano perché spinti da tribolii e spero che questi si trasformino in uno sguardo sul mondo, che escano dall’io.

MB

Immagine di apertura: Foto di Luca Guadagnini

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