Sorvegliare, punire, curare: i giovani visti solo come un «problema»

Capire i giovani non è mai stato semplice e nemmeno la Treccani è di aiuto. Alla voce “giovane” si legge: “Che è nell’età della giovinezza“ e se si passa alla voce “giovinezza” si resta comunque interdetti: “L’età intermedia tra l’adolescenza e la maturità”. Passare alle voci “adolescenza” e “maturità” rischia di complicare ulteriormente le cose e tanto vale passare ai dati. Per esempio quelli forniti dall’istituto di statistica provinciale (Astat) relativi ai giovani. Premesso che l’approfondita “indagine conoscitiva sulla condizione e sugli interessi dei giovani in Alto Adige” è stata sospesa causa Covid, ci si può rifare ai dati risalenti al 2017 e 2018. Nel 2018, per esempio, sono stati pubblicati quelli relativi alle 120.000 persone in età compresa tra i 15 e i 34 anni registrati alle anagrafi della provincia di Bolzano (situazione al 31.12.2017). Una fascia di popolazione in calo numerico continuo. Il documento Astat lo premette già dalle prime righe: «Nel giro di tre decenni la quota della generazione giovanile, rispetto alla popolazione complessiva, si è ridotta da un terzo a meno di un quarto (22,8%)». Avvicinandoci al tema principale di questa inchiesta, non si può non citare un ulteriore dato: «Il 13,1% dei giovani tra i 15 e i 34 anni beve alcolici più volte a settimana al di fuori dei pasti». Questo significa che ben l’86,9% dei giovani non beve alcolici più volte a settimana al di fuori dei pasti.

I giovani, l’alcol, gli altri

Notizia decisamente interessante, ma che necessita di ulteriori approfondimenti. Bene, nel documento «Alcol in Alto Adige: opinioni e consumo” (Astat 2019) si legge: “All’aumentare dell’età cresce la frequenza di consumo”. Più in dettaglio: “Il 93% degli altoatesini tra i 14 e gli 85 anni ha bevuto alcolici almeno una volta nel corso della vita. Il 57% li consuma attualmente almeno una volta alla settimana. La frequenza di consumo è più alta tra i maschi e tra gli anziani”.  Numeri che mi fanno venir voglia di contattare quel noto amministratore pubblico che, introducendo la conferenza stampa in cui il Teatro la Ribalta stava presentando le attività dei suoi attori “speciali” e “di-versi”, invitò  i giovani ad andare a vederne gli spettacoli “invece di ubriacarsi e drogarsi”. Parole che, purtroppo sono state confermate da decisioni conseguenti ovviamente scollegate dalla realtà e quindi inutili. Perché se dell’abuso di alcol abbiamo appena scritto, vale la pena ricordare che anche gli utenti di Binario 7 che si occupa di servizi a tossicodipendenti sono in maggioranza ultraquarantenni  e solo il 13% ha un’età compresa tra i 18 e i 29 anni. (dato 2018 cfr).

Quello appena citato, è, però, solo l’ennesimo indizio di quell’atteggiamento verso i giovani che abbiamo ampiamente descritto in precedenza e che spinge verso tre soluzioni: sorvegliare, punire o curare. Qui non si tratta di stare dalla parte dei giovani, anche perché chi scrive non lo è più da parecchio, ma di tentare di comprendere quel che ci succede intorno. Perché cercare dei colpevoli è compito delle forze dell’ordine, non dei singoli cittadini e nemmeno dei giornalisti.

La morte della politica

Per certi versi si avvicina di più al problema chi parla di giovani “maleducati” perché, almeno, sposta il problema dall’essere giovani all’educazione.  La lettura di “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini fosse anche solo per permettere un confronto tra i contesti di oggi e del passato. Perché non si può ragionare di politiche giovanile avendo in mente le generazione di venti, cinquanta o addirittura 70 anni fa. I giovani oggi sono una minoranza, non sono cresciuti giocando tutti insieme nei cortili, ma più spesso in spazi ristretti, collegati col mondo intero ma scollegati dai vicini, a volte persino dai compagni di scuola.
Un contesto che non li autorizza minimamente a rompere le scatole tutta notte con la loro musica dalle sonorità discutibili o vandalizzare tutto quello che incrociano, ma che può aiutare a indirizzarne le soluzioni.

Prima di dare la parola ai diretti interessati – ai giovani e a chi se ne occupa in varie forme –  può quindi risultare utile farsi qualche domanda sul “contesto” e sul nostro sguardo su di esso. Lasciando provvisoriamente da parte i giovani. Chi si ritrova senza lavoro ha il diritto di essere triste o irritabile? La sua reazione va considerata normale o patologica? In brutale sintesi, va considerato un disoccupato un depresso? E se questa depressione e irritabilità lo porta ad allontanarsi dalla famiglia perché non si sente più in grado di mantenerla o perché la sua rabbia si scaglia contro chi gli sta a fianco tanto da farlo restare solo, che si fa? Devono intervenire medici o poliziotti o si dovrebbero prevedere ammortizzatori sociali o politiche a tutela della famiglia?  E’ vero, cassa integrazione e sostegni alle famiglie non mancano, ma valgono per tutti? Valgono anche per i precari? Ecco, quanti sono i giovani precari e quanti gli anziani? Ma soprattutto, se qualcuno dopo aver perso lavoro e famiglia perde anche la casa, come si interviene? I senza casa come vengono assistiti? E chi ha molte case, invece? Chi è maggiormente tutelato?

Mi fermo qui proprio perché si potrebbe andare avanti all’infinito. Dovrebbe essere l’Abc della politica: trovare soluzioni ai problemi collettivi. Ma la politica è morta. Da diversi anni, i problemi sociali risultano interessanti solo quando si  trasformano in  “casi umani”. Collettivamente vengono gestiti come problemi di ordine pubblico o sanitario. Quanto accaduto negli ultimi due anni sembra non aver insegnato nulla, anzi, i colpevoli aumentano e le soluzioni sono sempre più delegate a forze dell’ordine e medici. Se si è nati troppo di recente o in un altro paese si è particolarmente esposti al rischio “capro espiatorio”. Se si è entrambi o ci si rassegna o si è travolti da rabbia e frustrazione. La risposta è sempre e comunque individuale, la politica è scomparsa.

(Segue…)

Massimiliano Boschi

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