Il Centro di Ascolto Caritas tra Covid, welfare e sfide future: intervista a Mariano Buccella

Ad ottobre 2020, in piena pandemia, il Centro di Ascolto della Caritas altoatesina ha compiuto trent’anni. Dalla sua apertura nel 1990 presso i locali dell’Odar in via Renon, il servizio della Diocesi Bolzano-Bressanone ha collezionato la bellezza di oltre 80.000 incontri durante i suoi tre decenni di servizio. Oggi, dalla sede in via Cassa di Risparmio, il personale del Centro di Ascolto rimane un punto di riferimento nella rete di welfare locale, tant’è vero che nel 2020 si è registrato un +15% negli incontri rispetto all’anno precedente per un totale di 891 utenti che hanno usufruito del servizio. Per capire meglio di cosa si occupa il Centro e il suo ruolo all’interno del terzo settore locale abbiamo intervistato Mariano Buccella, educatore sociale e viceresponsabile del Centro di Ascolto Caritas.

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Mariano Buccella, di cosa si occupa il Centro di Ascolto Caritas a Bolzano e quali sono le principali problematiche che trattate quotidianamente?

Il Centro di Ascolto Caritas di Bolzano è un servizio di consulenza generica, questo significa che una persona che si trova in una qualsiasi situazione difficoltà o bisogno può rivolgersi a noi. Per intenderci, possiamo assistere un utente dallo stipulare un Alto Adige Pass, all’aiuto per piccoli pagamenti, fino alla ricerca lavoro. Per esempio, in passato è anche capitato di assistere persone vittime di violenza che abbiamo poi reindirizzato ai servizi competenti.

Quindi si può dire che il vostro sia un primo centro di contatto?

Sì, esatto, la metafora che utilizziamo è sempre quella del medico di base e degli specialisti: noi accogliamo tutti gli utenti e poi se non siamo noi competenti per la problematica che ci viene portata reindirizziamo la persona ai servizi specialistici dedicati.

Come ha influito il Covid nell’erogazione dei vostri servizi? Immagino sia stata una sfida anche per voi adattarvi alla situazione.

Sicuramente è stata una bella sfida in quanto noi come Centro di Ascolto Caritas viviamo di incontri con i nostri utenti, perciò con il blocco degli spostamenti è venuta chiaramente a mancare una componente importante del nostro lavoro. Le consulenze telefoniche le facevamo anche prima, ma ci siamo dovuti reinventare in questo senso per riuscire ad “incontrarci” con le persone anche al telefono. Abbiamo dovuto aumentare le risorse dedicate alle consulenze telefoniche e allo stesso tempo abbiamo dovuto trovare dei metodi nuovi di comunicazione, perché al telefono vengono a mancare parti importanti del processo di ascolto: la mimica, la gesticolazione, la lacrima, il sorriso, eccetera. Ad oggi, il Covid ha prodotto un aumento delle consulenze telefoniche, nonostante noi abbiamo comunque cercato di mantenere sempre aperto il servizio di apertura al pubblico.

Una volta che questa situazione emergenziale dovuta alla pandemia sarà finita definitivamente, pensa che le persone continueranno a preferire il colloquio telefonico oppure torneranno ad usufruire del servizio in presenza?

Mi auguro entrambe le cose, sia che tornino le persone in presenza, anche se in realtà stiamo già vedendo un aumento in questo senso, sia che continuino le telefonate. Perché con le telefonate raggiungiamo più persone, soprattutto quelle residenti nelle zone limitrofe dell’Alto Adige. Questo ci ha anche permesso di “rinfrescare” i contatti con le associazioni locali sul territorio con cui non abbiamo così spesso a che fare.

Chi è l’utente tipo che si rivolge al vostro servizio? Sempre ammesso che sia possibile identificarne uno.

Innanzitutto, è difficile trovare un utente tipo, perché i nostri utenti sono tutte persone comuni che si trovano in un momento di difficoltà. Arriva la persona senza fissa dimora, così come arriva l’ex imprenditore o la persona che ha un lavoro, ma che magari a causa di spese impreviste quel mese non ha i soldi per pagare una bolletta. Diciamo però che la maggior parte delle persone che si rivolgono a noi si trovano in grave difficoltà: senza dimora, senza lavoro, oppure sostenuti dai servizi sociali.

Parliamo del vostro rapporto con l’utente, quali sono le differenze fra voi e il servizio assistenziale pubblico nell’approccio con la persona e nell’erogazione del servizio?

Dal punto di vista dell’approccio differenze sostanziali non ci sono, quello che viene un po’ a cambiare è nell’erogazione dei servizi. Il servizio pubblico è regolato da normative molto chiare, per esempio, nell’erogazione di aiuti economici il distretto sociale può intervenire solo su determinate cose: contributo per l’affitto, contributo per la cauzione, contributo per gli occhiali, eccetera. Noi invece non siamo soggetti ad una rigida normativa e questo ci rende complementari al servizio pubblico, il quale resta comunque sempre il primo riferimento sul territorio, infatti, dove questo non può intervenire entriamo in gioco noi. C’è una forte collaborazione in questo senso fra le due realtà.

È corretto affermare che il servizio da voi erogato non è di tipo assistenzialistico fine a sé stesso, ma è piuttosto un progetto educativo volto a promuovere l’autonomia della persona?

Questo è esattamente il concetto che ci muove, ragioniamo sempre in termini educativi. Per esempio, se una persona viene a chiedere aiuti economici per pagare l’affitto e noi pagassimo senza instaurare nessun tipo di progetto educativo, allora il problema verrebbe semplicemente rimandato al mese successivo. Per contro, se nel mezzo di questo aiuto si costruisce assieme all’utente un percorso educativo volto a risolvere il problema alla radice, allora si può puntare al vero obbiettivo che è quello di rendere autonoma la persona in difficoltà. L’aspetto educativo noi lo immaginiamo proprio come un percorso in cui “camminiamo” insieme alla persona.

Sempre in relazione al discorso della cooperazione con i servizi assistenziali pubblici, quanto è importante affiancare il welfare privato a quello pubblico previsto dall’ordinamento della legge?

Credo che questo sia fondamentale in quanto ci completiamo proprio nell’intervento. Ogni persona porta un caso a sé e di conseguenza è impossibile standardizzare un intervento di aiuto. Per cui il lavoro di rete fra i vari servizi risulta fondamentale nel garantire il sostegno alla persona e guidarla verso la risoluzione del problema e all’autonomia. Aggiungo un’altra cosa: nel momento in cui la persona raggiunge l’autonomia va comunque sostenuta per un certo periodo di tempo, perché in questa fase possono emergere problematiche che inizialmente non erano affiorate, proprio perché la persona era ancora sostenuta dalla rete. Questo non vuol dire che il sostegno viene dato per tutta la vita, ma viene mantenuto finché effettivamente serve.

A livello locale della Città di Bolzano, ad oggi, si può dire che esista un buon coordinamento fra terzo settore pubblico e privato?

Devo dire che la situazione è buona, ma non ottima. Perché ad oggi manca ancora effettivamente un efficace scambio di informazioni nella rete di aiuto. Io vedo che tante volte ci sono difficoltà nel prendere contatti e mantenerli con i vari servizi della rete. Ripeto: lo scambio c’è, è buono, ma si può sicuramente migliorare.

Si può dire che manchi una struttura istituzionale che standardizzi la circolazione dell’informazione all’interno della rete di aiuti?

Diciamo che questa struttura esiste per alcuni servizi mentre per altri no, nel senso che ci sono dei servizi che partecipano a dei tavoli di lavoro per determinati temi, ma mancano invece per gli altri servizi che quei temi lì non li trattano. Quello che servirebbe è una struttura in grado di coinvolgere veramente tutti i servizi. Mi rendo conto però che non è una cosa facile questa, in quanto stiamo parlando di una “macchina” enorme: Bolzano e l’Alto Adige in generale possiedono una fitta rete di servizi. D’altra parte, noi abbiamo sperimentato in prima persona che dove riusciamo ad avere un maggior scambio di informazioni il lavoro avviene in modo molto più fluido. Il tema dello scambio di informazioni non interessa solo la rete di servizi, ma anche la comunicazione all’interno di un singolo servizio come può essere la Caritas ad esempio. Diciamo che questa tematica è molto attuale ed è sempre da mantenere e sviluppare. Questo anche perché c’è molto ricambio di operatori all’interno dei servizi e perciò risulta importante trasferire efficacemente l’informazione dall’operatore al servizio stesso.

Rimanendo sempre sulla situazione di Bolzano, seconde te è positivo lo scenario locale che si presenta in termini di disponibilità di aiuti alla persona e servizi? Ci sono delle tematiche che sono meno rappresentate all’interno del terzo settore?

Come dicevo prima la rete di servizi a Bolzano e provincia è molto ricca, perciò una persona che ha un problema difficilmente non trova risposta nei servizi. Sicuramente ci sono anche grosse criticità su vari fronti, quello che a me personalmente preme di più è il discorso dell’abitare. L’attuale modalità di approccio del sistema assistenziale è detto “approccio a scalini”, ovvero, la persona senza dimora che dorme per strada entra prima nel dormitorio di bassa soglia, poi entra nel dormitorio di secondo livello, va negli appartamenti ad alta autonomia o nelle strutture e infine arriva in casa Ipes o casa sul libero mercato dove ottiene la sua autonomia. In questa situazione di autonomia bisogna però capire se uno riesce effettivamente a restarci, infatti, molti studi hanno dimostrato che tante persone ricadono proprio in questa fase. Questo perché per tanti anni la persona è stata seguita e aiutata nello sviluppare una forma di autogestione, perciò nel momento in cui il supporto viene a mancare e la persona si ritrova effettivamente da sola può esserci una rapida ricaduta, la situazione esplode e la persona si ritrova per strada al punto di partenza. Un approccio alternativo di cui mi sono innamorato quest’anno è quello dell’housing first. Questa modalità di assistenza si differenzia dall’approccio a scalini in quanto la persona non si deve “guadagnare” l’aiuto, ma gli viene subito proposta un’abitazione con un progetto collegato. Per tutta la durata del progetto la casa viene garantita alla persona indipendentemente dalla condotta mantenuta, per esempio, se un tossicodipendente o un alcolista continua a fare uso di sostanze il progetto abitativo e rieducativo continua comunque ad andare avanti. L’approccio è molto diverso rispetto a quello tradizionale, tuttavia, studi hanno dimostrato che con questo modello la persona tende ad autoregolarsi nel tempo. Ad ogni modo, c’è un mondo dietro a questo approccio, io l’ho giusto accennato brevemente. So che a Bolzano si sta valutando la possibilità di testare questo tipo di approccio che viene già utilizzato in Italia, fra l’altro anche dalla vicina Trento.

Axel Baruscotti

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