Il lupo in montagna. I numeri e la politica

L’attuale saga del lupo in Europa si accresce in questi giorni in Svizzera di un nuovo capitolo che offre notevoli spunti di interesse anche per l’Alto Adige. Qualche numero, prima di tutto, per attestare recupero ed espansione di questo animale. Oggi l’Unione Europea e la limitrofa regione balcanica e orientale non (ancora?)-EU ospitano più lupi di tutti gli Stati Uniti d’America, Alaska incluso. Le Alpi, con circa 1900 esemplari stimati, hanno oltre il doppio della popolazione dell’intera Scandinavia. L’Italia, che 50 anni fa era rimasta con appena 100 o 200 esemplari che mangiavano nelle discariche appenniniche, ora ne conta (dato ufficiale ISPRA) oltre 3000. Insomma, un grande e inaspettato ritorno di una specie iconica. Un ritorno che va indubbiamente gestito con criteri razionali e scientifici.
Veniamo alla Svizzera. Anche qui, come in gran parte d’Europa, la “cosa” era stata risolta prima della fine dell’800 a forza di pallettoni, tagliole e esche avvelenate. Le Alpi ne erano liberate e del lupo avevamo perso perfino il ricordo. Poi, l’inconcepibile: i primi nuovi lupi entrano dai confini franco-italiani verso il 1995. Nel 2012 il primo branco. Per la situazione attuale, cito testualmente: «Nel 2020 in Svizzera erano presenti complessivamente 11 branchi e poco più di cento lupi, mentre attualmente si contano 32 branchi e circa 300 lupi. Nel 2019 in Svizzera i lupi hanno predato 446 animali da reddito, mentre nel 2022 sono state registrate 1480 predazioni». Personalmente, 20 nuovi branchi (sarebbe meglio chiamarli gruppi famigliari) e 200 nuovi esemplari in 3 anni mi sembrano tanti. Ma tant’è: l’allarme sulla crescita esponenziale è ormai partito e consolidato sui media e nella parlata politica. Mi ripeto: la cosa va gestita. Ho visto di persona i resti di predazioni di ovini, asini e anche di un bovino da parte di grandi predatori e non è un bello spettacolo. So che ci sono persone che vivono in montagna e della montagna e non le sminuisco.

Ora il nuovo capitolo della saga. Per (cito dall’Ordinanza) difendere l’economia alpestre e la sicurezza delle persone, vengono allentate le condizioni per l’abbattimento, passando da una strategia reattiva (abbattimenti dopo il danno) a una preventiva più facilitata con la quale viene lasciata – da parte della Confederazione – molta più discrezionalità alle autorità cantonali (come se in Italia dall’ISPRA o dal Ministero si demandassero le decisioni dirette sugli abbattimenti – almeno in certi casi – alle Regioni e province autonome). Si passa dall’abbattere il lupo perché ha commesso un’aggressione ad un animale da reddito ad abbatterlo perché è il lupo.
È al momento impossibile dire oggi cosa succederà (i primi abbattimenti sotto il nuovo corso sono previsti nelle prossime settimane), come i Cantoni useranno questa nuova arma e quale ruolo di controllo manterranno i servizi confederati. Quanto il lupo sarà in grado di adattarsi a questa nuova sfida. Le associazioni ambientaliste (WWF, Pro Natura e altre) per il momento osservano criticamente ma non evocano lo strumento referendario. Non subito, almeno. D’altra parte, il vento in Svizzera (alle recenti elezioni federali ci sono state gravi perdite di Verdi e Verdi Liberali) non tira attualmente molto a favore dell’ambiente.
Anche se, si sa, il vento a volte cambia in fretta: per esempio qualora elettrici e elettori realizzassero che per contenimento dei branchi si intende (questo già ora, peraltro) l’abbattimento di cuccioli in presenza dei loro genitori. Con la nuova Ordinanza si potrà abbattere il 75% dei cuccioli nati nell’anno in un singolo branco (tre su cinque, insomma). E i Cantoni sembrano avere idee molto chiare: i Grigioni stanno per partire con il contenimento e la nuova Ordinanza consentirebbe loro, almeno in teoria solo dietro approvazione federale, di ridurre i branchi dai dodici attuali ad un minimo stabilito (con quali criteri?) di tre.

A scanso di equivoci ripeto che io ritengo che le popolazioni di grandi predatori vadano gestite e i casi realmente problematici risolti anche se è impopolare farlo (è sul quel “realmente” che spesso non si trova accordo…). Ma la nuova Ordinanza svizzera la riassumerei così: emotiva, affrettata, politico-elettoralistica, non scientifica (dove sono, come detto, gli studi a supporto del numero minimo di branchi per regione?), inaccettabilmente vaga nella definizione di come determinare la futura ed eventuale pericolosità di un branco, ecc. Inoltre, le predazioni – e quindi i danni all’allevamento – non stanno aumentando simmetricamente all’aumento dei branchi: in qualche cantone sono addirittura in diminuzione e sembrano dipendere molto più dalla implementazione delle misure di protezione degli animali da reddito, o meno, che dalle sparatorie autorizzate. I dati dovrebbero prevalere sulle emozioni o le sensazioni, non solo a proposito di lupi e non solo in Svizzera.
Penso che questa Ordinanza svizzera sia solo un episodio in una lotta che si protrarrà per anni anche nella UE e con connotati politici e legali più che tecnici. Abbiamo l’esempio degli Stati Uniti dove nel 2020 l’amministrazione Trump (certamente non insensibile alle posizioni della National Rifle Association) toglie al lupo la protezione federale e demanda la gestione ai singoli stati. Il macello parte subito: 200 esemplari uccisi in tre giorni nel Wisconsin, metà della popolazione fatta fuori nell’Idaho in una sola stagione ecc. Con il risultato che un giudice blocca il tutto nel 2022 e la specie torna subito sotto la protezione federale, tranne la popolazione nelle “Northern Rockies” che evidentemente può già sostenere un prelievo (cfr qui). Non mi meraviglierei se anche in Europa si andasse avanti a lungo a carte bollate. Già lo si fa, e non sono sicuro questa sia una via sostenibile.
Torniamo alla Svizzera, all’uccisione preventiva del lupo semplicemente perché è il lupo anche in assenza di aggressioni. È l’antico nemico che torna. È una reazione culturale e identitaria. Non è questione di pecore anche se queste vengono improvvisamente e paradossalmente elevate a cardine dell’economia elvetica, da difendere in ogni modo e con ogni mezzo. L’economia pastorale, per difendere la quale si ammazzano ora preventivamente i lupi, senza i sussidi pubblici chiude in 24 ore e spesso è ormai solo la parodia di un sistema di vita che non tornerà mai più. Il 60% del reddito dell’azienda agraria, in Svizzera, dipende da trasferimento di denaro pubblico. Ma il Bergbauern-Mythos (così chiamato sui giornali liberali zurighesi) sembra immune a qualunque domanda di una franca e obiettiva discussione sul tema. Nel frattempo noi “cittadini” paghiamo due volte: per le pecore e per l’abbattimento preventivo dei lupi.

Il numero di parlamentari provenienti dal mondo agricolo continua a crescere e oggi rappresenta il 20% del totale; là dove, al contrario, agricoltura e allevamento contribuiscono per meno dell’1% al PIL nazionale. Il lupo sembra preso in mezzo ad una di quelle spaccature politiche e culturali che connotano spesso la politica svizzera, la linea divisoria tra città e mondo rurale/montano. Va da sé che la stragrande maggioranza dei parlamentari agrari sta nel partito che non solo è anti-lupo ma pure anti-Ue, anti-stranieri, insomma anti tutto quello che non riusciamo a comprendere. I cittadini pro-lupo sono per loro la prova evidente della rot-grüne Diktatur (cioè verdi e socialdemocratici) che minaccerebbe l’identità (montana e rurale) della nazione. Stiamo parlando di lupi, o di una divisione sempre più inconciliabile? O addirittura della nostra incapacità culturale di affrontare un mondo che, nelle aree urbane come sulle montagne, cambia ad una velocità che non riusciamo ad afferrare?

Mauro Balboni

Immagine di apertura: Foto Venti3

 

Mauro Balboni, laureato in Scienze agrarie all’Università di Bologna, ha lavorato oltre 30 anni nella ricerca e sviluppo della grande industria agrochimica, la maggior parte dei quali come dirigente con responsabilità europee e globali. Ha vissuto a Milano, Bologna, Vienna, Oxford, Zurigo. Oggi risiede tra la Svizzera e il lago di Garda, dove ha trovato la sua vera life mission, quella di conservare un biotopo di prati magri e i suoi legittimi residenti: le “carote ametista”, le cavallette dalle ali blu, le api, le farfalle e le orchidee rare. Dal 2017 scrive sui temi della sicurezza alimentare globale e dell’impronta del cibo sulle risorse e gli ecosistemi, prima con “Il Pianeta mangiato” e ora con “Il pianeta dei frigoriferi“. Nel resto del suo tempo gira l’Europa con il camper, a piedi o in bicicletta anche alla ricerca di agricolture e di cibi presenti, passati e futuri.

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