Come portare le "bollicine" a New York. La storia di Umberto Marino da Bolzano

Umberto Marino è uno “Strategic Brands Manager” che attualmente lavora per Freixenet Mionetto USA, uno dei principali produttori internazionali di vini spumanti. Nato a Bolzano nel 1990 da genitori campani, Marino frequenta le scuole del capoluogo e trova lavoro presso una ditta locale. Tuttavia, nel giro di poco, il desiderio di inseguire il sogno americano lo spinge a trasferirsi negli Stati Uniti, dove inizia ufficialmente la sua carriera nel settore food and beverage. Grazie all’esperienza, al suo approccio strategico e – perché no – alle sue radici altoatesine, Marino riesce a portare i prodotti di Mionetto ad un pubblico sempre più vasto e variegato, consolidando il loro posizionamento sul mercato americano. Lo raggiungiamo telefonicamente all’altro capo del mondo, per indagare sul suo percorso, sulla carriera in Mionetto e sulla sua relazione con l’Alto Adige.

Da dove nasce la tua passione per il settore “food and beverage”?

Mia mamma è di Caserta, sono cresciuto al suo fianco in cucina. Inoltre, il mio è un carattere abbastanza espansivo e fin da giovane mi è sempre piaciuta l’idea di diventare ambassador per qualche brand o azienda. Subito dopo la scuola, infatti, ho cominciato a lavorare da Würth, ma ho capito ben presto che quella non sarebbe stata la mia strada. Mi sono quindi spostato a Loacker e mi sono sentito a casa. Al tempo – parliamo all’incirca del 2016 – Loacker aveva già un piccolo ufficio negli Stati Uniti, ma c’era il problema del visto; allora mi sono preso una settimana di vacanza per andare a New York con un amico e vedere che aria tirava.

E cosa ti ha spinto a restare?

Un fatto accaduto al gate a Malpensa, prima ancora di partire, che ha a dir poco dell’assurdo… Stavo parlando con il mio amico e ad un certo punto lui mi ha chiamato scherzosamente “quadratino Loacker”; la ragazza che era dietro di noi e ci stava ascoltando, mi ha subito chiesto se stessi volando in America per Loacker – no, risposi, ma intendevo trovare lavoro nel settore food. Ci siamo scambiati i biglietti da visita e 7 mesi dopo, nel 2017, mi ha contattato per fare un colloquio nella sua azienda. A quel punto, eccezion fatta per un breve rientro per il visto, mi sono trasferito definitivamente.

Quanto hai lavorato per questa azienda? E come sei arrivato poi a Mionetto?

Dopo questa mia prima parentesi durata più o meno un anno, sono venuto in contatto con Venchi, che al tempo cercava qualcuno che si occupasse di sviluppo commerciale. Sono rimasto con loro per tre anni, poi ricoperto questo ruolo anche per altre aziende – lavorare nel settore food and beverage per aziende italiane in America è prevalentemente una questione di networking. Al contrario delle altre aziende per cui avevo lavorato fino ad allora – che erano tutti progetti relativamente nuovi, il cui business americano andava costruito da zero – Mionetto era molto strutturato e per questo avevo adocchiato le loro offerte lavorative. L’incontro con Enore Ceola, CEO di Mionetto e prima persona ad aver introdotto il vino spumante negli Stati Uniti, è stato il punto di svolta che mi ha convinto a buttarmi in questa nuova avventura.

Come hai acquisito le tue competenze nel mondo del vino? Hai seguito corsi di formazione specifici?

Non proprio, direi piuttosto la mia è stata un’esperienza diretta, prettamente sul campo. Nei sei anni precedenti a Mionetto mi sono dato molto da fare, e oltre a presenziare a moltissimi eventi e conoscere continuamente persone nuove, ho partecipato a diversi seminari in ambito di food and beverage; qui sono stato formato in merito al prodotto ma anche alle normative legate all’importazione in America e alle questioni logistiche. Per sei anni ho viaggiato in continuazione, sono arrivato a prendere più o meno un aereo ogni settimana.

“Sounds challenging”, come direbbero gli americani.

Assolutamente, ma è anche motivo di orgoglio. Mionetto è primo al mondo per numero di bottiglie, e rappresentare questa azienda è sicuramente un grande traguardo per me. Il vino italiano – così come in generale il marchio “made in Italy” – è considerato una garanzia all’estero, ed anche nei supermercati occupa sempre gran parte dello scaffale. Nello specifico, quello del prosecco è un mercato che cresce costantemente nel settore dei vini frizzanti: basti pensare che fino a un paio di anni fa qualsiasi consumatore americano – mia moglie compresa – chiamava “champagne” qualunque tipo di bollicina, senza fare distinzioni. Il merito di questo cambiamento è di tutti coloro che sono stati in grado di spiegare e raccontare il prodotto e il tipo di produzione.

E in che modo esattamente? Quali sono le strategie per far conoscere i prodotti Mionetto ai consumatori americani?

Gran parte della strategia marketing è basata sull’educazione dei buyer, quindi di coloro che comprano per le catene e i ristoranti, ma allo stesso tempo si concentra sul consumatore finale, ovvero colui che compra la bottiglia in esposizione sullo scaffale. Oltre a sponsorizzare moltissimi eventi, ci siamo cimentati in vari progetti, sia dal vivo che online. Uno di questi, ad esempio, è il “Mionetto takeover”, pensato a partire dal nostro prodotto di punta, la bottiglia con l’etichetta arancione. Da qui abbiamo organizzato due mesi di pubblicità a Miami che ricalcasse questa “orange wave (l’onda arancione)”: abbiamo verniciato di arancione i taxi e i bus per turisti, attaccato bandiere Mionetto sugli aerei che volavano in spiaggia ed organizzato moltissimi pool party interamente brandizzati mionetto.

E i social?

Siamo la pagina di prosecco con più follower, oltre 32.000; facciamo spesso dei giveaway, ovvero delle specie di concorsi su Instagram dove le persone possono commentare i nostri post, taggarci nelle loro storie e ricevere grossi premi. Collaboriamo con numerose influencer e cerchiamo continuamente nuove partnership per diversificare l’uso del prosecco e vederlo non solo come vino spumante ma anche come ingrediente per cocktail. In merito a questo abbiamo creato lo “Spritz Amalfi” con il limoncello e collaborato con Campari e Aperol. In generale lavoriamo con standard alti per garantire una certa qualità non soltanto nel prodotto, ma in tutta la filiera.

Ci sono differenze nel gusto e nelle preferenze dei consumatori americani rispetto a quelli italiani?

Sì e no, diciamo che dipende tutto dalla zona. Ad esempio, nel Sud America sono più apprezzati i vini dolci, mentre al Nord quelli con un profilo più secco. Tutta la vendita si basa su approfondite ricerche di mercato, attraverso le quali capiamo i gusti dei consumatori, spingiamo determinati investimenti di marketing e promuoviamo un prodotto piuttosto che un altro. Spesso ci capita di distaccarci dal classico prosecco Mionetto, e di attingere invece da altri vini del nostro portfolio, da quelli spagnoli allo champagne francese.

Le tue origini altoatesine influenzano il modo in cui promuovi i prodotti Mionetto?

In questo caso interviene il fattore dell’autenticità: l’azienda, soprattutto quando mi manda in trasferta, sa che io provengo da una regione italiana fortemente orientata alla coltivazione della vite, e questo per loro è una garanzia. Inoltre, nonostante io abbia origini meridionali, mi reputo fortunatissimo ad essere cresciuto in Alto Adige: pur essendo un territorio non molto vasto, è ricco di opportunità di crescita sia lavorativa che personale. Basti pensare al fattore bilinguismo o alla forte impronta imprenditoriale che lo caratterizza.

Come ti sei adattato alla vita e al lavoro in America, rispetto alla tua esperienza in Alto Adige?

L’impatto iniziale è sicuramente molto forte. Si passa dalla convivenza di due culture a quella di cento, ed è un bel salto. In ogni caso però devo dire che l’Alto Adige mi ha cresciuto con una mentalità aperta, che mi ha permesso di conoscere e rispettare tutte le tradizioni, lingue e religioni che abitano gli Stati Uniti ogni giorno.  A distanza di tanti anni dal mio trasloco, direi che la principale differenza sta nella frenesia: la frenesia delle persone in strada, dei datori di lavoro, delle giornate. Per me vivere qui è stato ed è ogni giorno un grande sacrificio, ma che porta straordinarie soddisfazioni.

E cosa ti piace fare quando torni qui in Alto Adige, in quei pochi giorni di vacanza che ti sono concessi?

Quando torno in Alto Adige e mi piace prendermi del tempo per stare in famiglia, andare tutti insieme a camminare in montagna e pranzare nei vari masi. Spesso vado anche alle terme di Merano con mia mamma, a passare una giornata di relax. Potrà sembrare strano, ma un’altra attività che adoro è girare per le vie di Bolzano, sotto i portici, con la musica nelle orecchie; in piazza Walther mi fermo sempre per un caffè e tiramisù e mi godo semplicemente la bellezza e la tranquillità della città. D’altronde, per chi, come me, è sempre di corsa, queste sono piccole coccole sicuramente molto apprezzate.

Vittoria Battaiola

Immagine in apertura: Umberto Marino

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