Bolzano: il kitsch e il provincialismo senza orizzonti

A domanda precisa: “Ma tu sai perché hanno tolto la panchina di via Bottai dove ti sedevi tutti i giorni?”, Riccardo risponde altrettanto precisamente: “Perché puzzo”.
Sbaglia, perché non emette alcun odore sgradevole, ma ha ragione a ipotizzare che quella panchina sia stata tolta proprio perché “abitata” da personaggi considerati poco “decorosi”.
Qualcuno deve averla trovata indecente, probabilmente gli stessi che considerano il nuovo Palais Campofranco come il “salotto buono” della città. Un “salotto” che, non a caso, è sorvegliato da una guardia privata e che, nei fatti, imita i centri commerciali con tanto di scale mobili all’ingresso. In questi giorni, probabilmente nella speranza di passare da salotto buono a salotto buonissimo, ospita una giraffa bianca dalle dimensioni di una vera. Dalla bocca le penzola un vistoso lampadario stile Murano.
Chi non metterebbe nel proprio salotto un oggetto di tale delicatezza?
Per Milan Kundera: “Il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile. Là dove un unico movimento politico ha tutto il potere, ci troviamo di colpo nel regno del Kitsch totalitario”. Bolzano, nonostante tutto, non sembra afflitta da un kitsch totalitario, le mancano i giusti orizzonti,  sembra preferire un più modesto kitsch provinciale.

Il provincialismo è qualcosa di più dell’ignoranza, È ignoranza più una volontà di uniformità. Si basa sull’ignoranza dei costumi degli altri e sul desiderio di controllare le loro azioni”. Si potrebbe aggiungere che è un sentimento tipico di chi si accontenta di informazioni superficiali, è un figlio “naturale” della mancanza di curiosità e della diffidenza, se non della paura, nei confronti di chi viene da fuori. Un mix che finisce per ridurre il luogo in cui si abita a un simulacro di un passato evidentemente mitizzato, tipico di chi, per esempio, racconta che fino a pochi anni fa si poteva tenere la porta di casa aperta senza che succedesse nulla. Non è vero (per una verifica si veda qui) ma sottintende che prima si viveva in armonia. Prima, ovviamente, che arrivassero «loro».

Un atteggiamento che azzera orizzonti e voglia di confronto e, soprattutto, impedisce di trovare soluzioni perché lo sguardo rivolto a un passato idealizzato è incapace di comprendere e affrontare la complessità del mondo attuale. Pur ricordando che il provincialismo è un male che colpisce l’Italia intera, non si può negare che a Bolzano si tocchino vette estreme. Sarà perché la Provincia, quella con la maiuscola, ha un’importanza senza eguali in Europa, sarà perché è una terra che per motivi diversi si sente costretta a una continua celebrazione del passato, fatto sta che il provincialismo impera indisturbato senza grosse resistenze.

Un esempio emblematico lo si può ritrovare nell’intervista di inizio anno rilasciata dal sindaco di Bolzano Renzo Caramaschi ad Antonella Mattioli giornalista dell’Alto Adige. La classica intervista che prova a gettare uno sguardo l’anno che verrà. Quel che interessa qui, non è attaccare il sindaco, ma evidenziare una mentalità che, proprio perché espressa pubblicamente dal primo cittadino di Bolzano, può essere considerata largamente condivisa. Nell’introduzione all’intervista pubblicata il 6 gennaio 2022, la giornalista ha sottolineato come Caramaschi abbia preferito «Partire della trasformazione sociale invece  che dall’elenco di opere e progetti».

Alla richiesta di ulteriori precisazione su questa «trasformazione sociale», il sindaco ha specificato meglio il suo pensiero: «Nel 1975, i bolzanini erano erano 107mila, più o meno la popolazione di oggi, ma con una differenza sostanziale, il 14,8% è rappresentato da stranieri, il 50% europei, il 24% asiatici, il 7% africani, il paese più rappresentato è l’Albania con il 15,9%. Più concretamente, 15 mila bolzanini sono stati sostituiti da altrettanti stranieri. Persone che nella stragrande maggioranza dei casi lavorano, si sono create una famiglia e pagano le tasse. Loro devono fare lo sforzo di capire e adeguarsi alle nostre regole, noi dobbiamo aiutarli a integrarsi. Anche perché abbiamo bisogno di loro».

In sintesi, il sindaco, invece di parlare di quel che ha fatto o che doveva fare lui, ha preferito discutere di quel che devono o dovrebbero fare gli altri, guarda caso, proprio quelli che non lo possono votare.  Un’arma di distrazione di massa piuttosto spuntata, ma l’analisi del suo ragionamento, può comunque rivelarsi utile. Per esempio, perché il sindaco decide di partire dal 1975. Non parte da un dato di 50 o 40 anni fa, ma di 47 anni fa, e già questo è un segnale, ma sembra anche non rendersi conto che 15.000 stranieri in un arco di 47 anni sono circa 320 all’anno. La città di Bolzano non è in grado di accogliere numeri simili?

Sempre chi si voglia accettare la strampalata teoria per cui 15.000 bolzanini sarebbero stati “sostituiti” da altrettanti stranieri. Anche facendo finta di non notare come si stia evocando il fantasma di una sostituzione etnica – a Bolzano ha già fatto abbastanza guai – il sindaco sembra non ricordare che in questi ultimi 47 anni sono immigrate a Bolzano anche migliaia di persone provenienti da altre regioni italiane (compreso chi scrive). Questi chi avrebbero sostituito? A quale categoria appartengono? A quali tradizioni dovrebbero adeguarsi? Ancora, Caramaschi sottolinea giustamente che “abbiamo bisogno” di questi immigrati, ma poi passa a “dettare le condizioni”.

Questa nostra necessità non lo spinge, quindi, ad andare incontro alle loro esigenze, no, lo spinge a sottolineare le nostre. Non propone che ai lavoratori stranieri venga concessa la possibilità di esprimere un’opinione riguardo alla destinazione dei soldi delle loro tasse, non invita a concedere la cittadinanza ai loro figli nati qui. No, chiede che si adeguino alle nostre regole e tradizioni. Che il problema stia proprio nel fatto che pagano le tasse? Una pratica che, notoriamente, non fa parte del bagaglio culturale italiano…

Facili battute a parte, risulta evidente come le parole del sindaco esemplifichino al meglio quella mentalità provinciale sottolineata all’inizio. Traspare l’ignoranza sui costumi degli altri – che finiscono tutti nel calderone “stranieri” – nonché la diffidenza per quello che “viene da fuori”, ma soprattutto, si evidenzia senza filtri quella mentalità che costringe la provincia a restare tale: l’idea che sia il mondo a doversi adattare alla provincia (in questo caso Bolzano)  e non il contrario.

Nessuno intende negare l’importanza della gestione delle questioni legate all’immigrazione, ma l’unico approccio utile parte dall’analisi del presente e da una qualche visione del futuro, non dal rammarico per un passato che non esiste più. Confondere i ricordi con i desideri può risultare utilissimo alla creazione del consenso, soprattutto in una città come Bolzano, ma non avvicina minimamente le soluzioni.

Massimiliano Boschi

foto di apertura di Caterina Longo

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