Italia 2022: il futuro preso a calci

Per una testata che si occupa di innovazione, il futuro non è un argomento secondario. Guardare al futuro in un modo o in un altro, essere pessimisti o ottimisti, riformisti o rivoluzionari, finisce inevitabilmente per influenzare quel che accadrà. Vale per tutti, ovunque. 
Ovviamente molto dipende da risorse e strumenti a disposizione, ma, soprattutto da come ci immaginiamo tra dieci, venti o cinquant’anni. 
Per comprendere criticità e prospettive di un territorio che purtroppo continua a credersi molto più speciale e autonomo di quel che è realmente, siamo partiti dall’analisi del contesto,
Per questo, iniziamo la prima serie di articoli, analizzando il contesto nazionale: quali sono gli orizzonti degli italiani, come si immaginano il futuro? 
Solo alla fine dell’analisi, si proverà a valutare se gli altoatesini hanno prospettive e sguardi differenti dal resto d’Italia, ma, per iniziare, ci siamo chiesti: gli italiani riescono ancora a immaginarsi un futuro che non sia distopico? 

Era il 2018, quando incominciarono ad essere pubblicati decine di libri, film e serie televisive ambientate in un “futuro distopico”. Sembravano il frutto di una moda passeggera, ma a oltre tre anni di distanza, l’ondata non sembra placarsi. Anzi, chi immaginava scenari che, contrariamente all’utopia, prefiguravano situazioni, sviluppi politico-sociali e tecnologici altamente negativi, è passato a parlare apertamente di “presente distopico”.
Non è un fenomeno solo italiano, ma nel Belpaese appare particolarmente diffuso, perché la distopia sembra colpire quasi tutti, anche chi non sa cosa significhi e, malauguratamente, soprattutto i più giovani. E’ l’inevitabile conseguenza di processi iniziati nella seconda metà degli anni Ottanta, quando l’invecchiamento della popolazione, le politiche securitarie e l’esigenza di ottenere risultati immediati tipica di una società capitalistica priva di capitali, hanno incominciato a prefigurare un futuro peggiore del presente, lasciandoci tutti convintamente d’accordo solo su una questione: “E’ finita la pacchia”.
Era il 1992 quando per la prima volta dal 1945, il debito pubblico superò l’ammontare del Pil, era il 1993 quando venne registrato il primo saldo naturale negativo dal 1918. Il numero dei morti aveva superato quello dei nati.
A trent’anni di distanza, il debito pubblico vale il 155,6% del Pil mentre nel 2021 è stato registrato il minimo storico delle nascite, 399.431 e i morti sono quasi il doppio: 709.000.
Non è colpa della pandemia, è un trend che dura da decenni e non migliora nonostante i proclami. Se è permesso essere brutali, il motivo è essenzialmente uno: le cose non sono migliorate perché del futuro non ce ne frega nulla, finita la pacchia, abbiamo preferito arraffare tutto e subito prima che lo facesse qualcun altro.

Il calcio insegna qualcosa?

E’ vero, le metafore calcistiche sono abusate e spesso indigeribili, ma viene richiesta una deroga provvisoria perché il calcio non è un fenomeno come gli altri, ha un valore economico, culturale ed emotivo con pochi paragoni, tanto che la mancata qualificazione ai mondiali è stata vissuta, o almeno letta e descritta, come un dramma collettivo. Ed è la seconda volta consecutiva, difficile pensare che sia un caso.
Più facile considerare l’ipotesi che sia la logica conseguenza di quanto praticato negli ultimi trent’anni.
Nel primo turno dei quarti di finale di Champions League, il più importante torneo per club del mondo, sono scesi in campo oltre cento giocatori suddivisi in sei squadre di quattro paesi diversi: Spagna, Inghilterra, Germania e Portogallo. Giocatori in prevalenza  spagnoli, francesi, brasiliani, tedeschi,  britannici e portoghesi, ma anche argentini, belgi, olandesi, croati, senegalesi e marocchini e altri 19 giocatori di altre 19 nazioni diverse.
Italiani? Uno solo, Jorginho, nato in Brasile e trasferitosi nel nostro paese all’età di 15 anni. Italiano in quanto “figlio” di emigranti, non di immigrati.
Non basta questo a spiegare per quale motivo i calciatori italiani vedranno il mondiale dalla televisione?
No, perché si dovrebbe spiegare come mai, l’Italia sia campione d’Europa di calcio. Forse dovremmo comprendere che è quella vittoria ad essere stata straordinaria (in un anno straordinario) e non la seconda eliminazione consecutiva nelle qualificazioni mondiali.
Perché se la vittoria agli Europei può risultare straordinaria, la mancata qualificazione ai mondiali è figlia di perduranti e ottuse politiche che, a partire dai settori giovanili, hanno spinto tutti alla ricerca del risultato immediato senza nessuna volontà di investire per il futuro.

Ancor prima dell’esclusione dai mondiali russi del 2018, i commentatori più attenti facevano notare come, da tempo, nelle scuole calcio si guardasse solo ed esclusivamente al puro ritorno immediato. Si sceglieva e si sceglie di far giocare chi è già fisicamente “pronto” per evitare sconfitte che possono far rimettere il posto ad allenatori o dirigenti. Tra il potente e il potenziale, tra il presente e il futuro, da anni si scelgono sempre i primi.
Una pratica che è diventata una regola e che vale per le serie maggiori e per quelle minori.
E’ sufficiente guardare al principale campionato Primavera (per ragazzi sotto ai 19 anni di età) dove le squadre che fino al gennaio scorso rischiavano la retrocessione, hanno fatto una campagna acquisti sparsa tra vari continenti per acquistare giocatori già pronti che potessero rimettere in sesto la baracca. Nel breve periodo, se si hanno risorse economiche sufficienti, si ottengono i risultati sperati, ma contemporaneamente si preparano i fallimenti sul lungo. Perché quelle risorse finiscono in paesi dove investono nei settori giovanili sapendo che, soprattutto grazie agli italiani, possono generare ottimi risultati economici.
Luoghi in cui si diventa ricchi investendo sui giovani, contro luoghi in cui si diventa poveri perché non lo si fa.

Dal calcio ai media, passando per la politica 

La logica del risultato immediato ha, ovviamente, contagiato anche la classe politica, quella che avrebbe lo scopo principale di tutelare l’interesse pubblico rispetto a quello privato.
Un obiettivo completamente dimenticato da chi è ormai schiavo del consenso immediato. I risultati sono conseguenti: leader e partiti incapaci di durare più di tre anni, mentre l’interesse pubblico scompare di fronte a interessi privati incapaci di guardare avanti.
Un discorso che vale anche per il sistema mediatico italiano che dopo oltre vent’anni di programmazioni appiattita sui dati Auditel, è passato al servizio della popolarità sui social. Si cavalca l’onda del momento, ci si concentra sui risultati immediati per raggiungere picchi di ascolto e popolarità su questioni che sembrano fondamentali, ma che tutti dimentichiamo dopo una settimana scarsa.
O qualcuno crede che tra due settimane si discuterà ancora delle bandiere Nato alle manifestazioni del 25 aprile?

Nel frattempo continua la fuga dalla televisione e i giornali chiudono, mentre nessuno si preoccupa di adeguare il welfare a una società sempre più vecchia che dovrà essere assistita da una gioventù sempre più precaria.
Tutto questo ha formato una mentalità ormai fossilizzata e diffusa fondata su privilegi sempre più ridicoli, ma continuiamo a preferire sempre e comunque una gallina oggi – anche se ridotta a due alette rinsecchite – all’uovo di domani. In un contesto simile, è difficile trovare il coraggio o la forza di invertire la rotta, mentre il tessuto sociale è sempre più lacerato e nessuno intende mollare il proprio piccolo e triste privilegio.
Fosse anche un posto a sedere su un vecchio treno interregionale stracolmo, vandalizzato e in ritardo.

Massimiliano Boschi

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