Il vicino di Benno (intervista)

Bolzano. Insegnante, editorialista del Corriere del Trentino e dell’Alto Adige, collaboratore di “FF -Das Südtiroler Wochenmagazin“, Gabriele Di Luca è tutto questo, ma soprattutto, è un lettore instancabile e onnivoro, i gialli, però, non lo hanno mai coinvolto particolarmente. Almeno fino al 5 gennaio 2021, quando i suoi vicini di casa, Peter Neumair e Laura Perselli, sono scomparsi trasformandosi nei protagonisti del caso di cronaca nera più seguito dell’anno appena cominciato.
Ma per Di Luca non erano la coppia della fotografia sul giornale e nemmeno “quelli del secondo piano”, erano Laura e Peter che, tra le altre cose, gli lasciavano i ritagli di giornale davanti alla porta.
A loro aveva dedicato anche alcune righe nel suo ultimo libro: “E quindi uscimmo a riveder la gente” .
“Sì -premette – li ho citati proprio perché – durante il lockdown – mi hanno spesso regalato degli articoli che avevano letto, deponendomeli semplicemente sulla soglia di casa (io abito al piano terra). Eravamo buoni vicini di casa, ci fermavamo spesso a parlare quando rientravo (o quando rientravano loro), incrociandoci in cortile. Una volta sono stato anche a casa loro, perché quando Laura cominciò a leggere il libro volle parlarmene. Aveva preso addirittura degli appunti. Poi un giorno mi mandò un vocale su Whatsapp, sempre per parlarmi del libro e dirmi che le era piaciuto molto. Anche con Peter i rapporti erano molto cordiali. Ricordo che l’ultima volta che ci ho parlato era all’indomani della grande nevicata d’inizio anno. Il fatto che persone alle quali sei abituato, che in un certo senso rappresentano la tua quotidianità, vengano improvvisamente a mancare, come se si fossero dissolte, è molto perturbante. Non è banale dire che si tratta di un vuoto che pesa”.

Come hai saputo della notizia della scomparsa e qual è la prima cosa che hai pensato?

Ho saputo della notizia da un vicino, che svolge anche il ruolo di amministratore della palazzina (o della villa, come la chiamo io), il quale mi ha detto che dal giorno prima Peter e Laura erano spariti, lui era stato contattato dalla figlia della coppia che vive a Monaco, Madé. Ovviamente era molto preoccupato. Però devo dire che ancora pensavo a un caso che potesse risolversi positivamente, o comunque che si potesse trovare una spiegazione non troppo dolorosa. Era anche il giorno (parlo del 5 gennaio) in cui si era verificata la frana dell’Hotel Eberle.

Ti ha stupito l’incriminazione di Benno?

Direi che a Benno ho pensato prima di tutto per esclusione. Non ho mai creduto che loro si fossero allontanati volontariamente, cioè che fosse loro occorso un incidente, una rapina o altre ipotesi. Purtroppo l’omicidio era (ed è, salvo smentite che ovviamente devono sempre poter essere accolte con sollievo) l’unica spiegazione plausibile dell’accaduto. E Benno viveva con loro, conoscevo vagamente gli attriti tra lui e la famiglia, quindi era inevitabile considerarlo almeno un potenziale responsabile. Sono pensieri che si fanno.

Come si vive pensando che nel tuo stesso edificio è stato commesso un omicidio e chi l’ha commesso potrebbe aver trasportato i corpi senza vita passando davanti alle tue finestre?

Non si vive bene in una situazione così. Diciamo che si sta un po’ come dentro una nuvola fatta di sconcerto, di inspiegabilità, che può essere paragonata a una nebbia. Quando poi è affiorata concretamente l’ipotesi dell’omicidio la nebbia è diventata più minacciosa. Benno è rimasto per molto tempo nella casa. Ci siamo incontrati un paio di volte, ovviamente gli chiedevo come andassero le ricerche, se si sapeva qualcosa degli scomparsi. Ma lui non aveva molta voglia di parlare, e di certo non con me, quindi chiaramente non ho mai insistito. Prima che fosse arrestato, con l’appartamento messo sotto sequestro, questa sensazione minacciosa si è ulteriormente intensificata. E chiaramente la percezione della sua pericolosità – anche in modo del tutto irrazionale – si è acuita.

Da quel 5 gennaio hai le forze dell’ordine fuori dalla porta e i giornalisti fuori dal cancello. Come si vive sotto questo “assedio”?

Un evento di questo genere è un magnete per l’interesse pubblico e i giornalisti contribuiscono a rendere tale magnete ancora più attraente. Non credo sia molto importante stabilire una causalità univoca, ossia se è la curiosità delle persone a sollecitare la stampa o se sia la stampa a creare una grande aspettativa nelle persone. È possibile che i due fenomeni si alimentino a vicenda. Per quanto mi riguarda, posso dire che la pressione, tutti i tentativi che sono stati fatti per carpire immagini o dichiarazioni, non mi hanno molto infastidito. Così come non mi hanno troppo infastidito le forze dell’ordine, che dovevano svolgere le loro indagini. Davo per scontato che accadesse e mi ci sono rassegnato.

Da editorialista, come valuti la copertura giornalistica su quanto avvenuto? Il “papà Peter” e la “mamma Laura” sulle locandine, la ricerca spasmodica di qualcosa da raccontare ogni santo giorno, la trasformazione di ogni passione o passatempo in qualcosa di patologico (“L’ossessione di Benno per il Body Building”…).
Non si è superato il limite per l’ennesima volta?

È molto difficile non superare il limite quando ci troviamo davanti a qualcosa che “sembra” così illimitatamente sconcertante. Quando non riusciamo a spiegarci le cose tendiamo a cadere in atteggiamenti scomposti, anche solo per riempire il vuoto che altrimenti ci sovrasterebbe. Poi ci sono le considerazioni etiche, il rispetto di un codice professionale che, purtroppo, viene in fretta dimenticato sotto la pressione di arrivare per primi sulla notizia, rivelando ciò che gli altri ancora non hanno detto o scritto. E allora ci si inventano pure delle cose che non sono mai avvenute (solo un esempio: a un certo punto qualcuno ha scritto che i RIS si siano messi a scavare per trovare i corpi in giardino) e si finisce per ignorare anche il senso del ridicolo, come quei giornalisti che restavano fino a tarda sera fuori del cancello per carpire un dettaglio o dei particolari che consentissero loro di buttare giù altre due righe.

Più in generale, tutti stiamo vivendo tempi “eccezionali”, tutti abbiamo lati del nostro carattere estremizzati dall’emergenza Covid come si sopporta un altro imprevisto? Leggere, scrivere, disegnare aiuta ad affrontare meglio tutto questo?

Io ho cercato di fare la vita che facevo prima. La reclusione (visto che parli dell’emergenza Covid) ha addirittura liberato energie che in altre circostanze, potendo muovermi più liberamente, non avrebbero forse trovato modo di esprimersi. Del resto, anche il confine tra tempi “normali” e tempi “eccezionali” potrebbe essere molto meno netto di quello che si pensa. Così come del resto è labile anche il confine tra la “normalità” delle nostre vite e una possibile degenerazione che poi porta ad atteggiamenti patologici e ad esiti drammatici. Ho riletto in questi giorni un passo del libro “Mentre morivo”, di William Faulkner, che lo dice nel migliore dei modi. Se vuoi te lo leggo.

Prego.

“Certe volte non sono tanto sicuro di chi ha il diritto di dire quando uno è pazzo e quando no. Certe volte penso che nessuno di noi è del tutto pazzo e nessuno è del tutto normale finché il resto della gente lo convince ad andare in un senso o nell’altro. È come se non fosse tanto quello che uno fa, ma com’è che lo guarda la maggioranza di noi quando lo fa. Ma non sono poi così tanto sicuro che uno abbia il diritto di dire che cos’è pazzo o che cosa non lo è. È come se dentro a ognuno ci fosse qualcuno che è al di là dell’essere normale o dell’essere pazzo, e le cose normali e le cose pazze che fa le guarda con lo stesso orrore e lo stesso stupore”.
Mi pare dica molto anche su ciò che è accaduto.

Massimiliano Boschi

Nell’immagine di apertura la bicicletta di Laura Perselli

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