
“Il ruolo dell’intellettuale in un sistema corrotto”. Un Goffredo Fofi di vent’anni fa, ma sembra oggi
L’11 luglio 2025 è morto Goffredo Fofi, intellettuale e critico che mancherà tantissimo alla cultura italiano. Lo ricordiamo con uno scritto pubblicato dalla rivista “Altrove” (Bacchilega editore) nel giugno 2005.
La cultura italiana langue, ogni anno conosco molti giovani che sono spinti dalle migliori intenzioni e, sul fondo, da ideali antichi e ricorrenti di solidarietà, di giustizia, di verità, di volontà di ben fare, ma si trovano di fronte adulti malati di retorica e di opportunismo, abilissimi voltagabbana, servi che tuonano come se fossero portatori di chissà quali verità, frequentatori inesauribili di mode, “comunicatori” indefessi. Il quadro è costernante, e la difficoltà più grave per chi intenda distinguersi da questa massa di pseudo individualisti è quella di saper mantenere viva la propria capacità critica senza soggiacere ai ricatti dell’ambiente. Il peggiore di questi ricatti è, per gli intellettuali che conosco, la paura di non esistere se non si è pubblicati, chiamati a destra e a manca, presenti sul piccolo schermo o sulle onde della radio, fotografati, riveriti, pagati, premiati. Riconosciuti. L’importante è anche per loro apparire (e avere, va da sé), non essere. Una cultura curiale e cortigiana, ma per ciò stesso assai ricca fino a un recente passato di “eretici”, oggi è gestita da giornalisti, bonzi universitari, funzionari di scarsa sostanza culturale e di scarsissima o nulla sostanza morale, e da “guru” poco disposti a mettersi in gioco, ben retribuiti nei loro accorti spostamenti e passaggi. Quello di cui si ha paura, la non-esistenza, può essere colmato solo dalla solidità della collocazione.
I migliori intellettuali di oggi sono forse quelli che pubblicano poco ma studiano molto, anche se in un loro specifico campo e con scarsa apertura per i problemi generali o di altri settori. Certo, di guru veri e attendibili non ce ne sono. Finita l’epoca dei Pasolini e dei Calvino e degli Sciascia, e anche delle Morante e delle Ortese. Finita l’epoca in cui il paese contava ancora qualcosa e le sue contraddizioni erano vissute e ragionate fino in fondo nella ricerca di strade percorribili e di trasformazioni positive o di resistenze e messe in discussione (ma a volte anche di adesioni: non tutto il nuovo era nefasto) di trasformazioni travolgenti. Finita l’epoca della sinistra, del centro e della destra, oggi ci si trova a dover scegliere (ma perché?) soltanto tra una destra, e un centro destra e un centro sinistra che, nei valori e nei comportamenti della quotidianità sono molto vicini, e questo spiega anche i passaggi da uno schieramento all’altro, spiega i tanti che passano tranquillamente da un luogo o un giornale detto di sinistra a uno dichiaratamente di destra, o che abilmente riescono a scrivere contemporaneamente su un quotidiano di sinistra e su uno di destra. La sinistra non sa ritrovare un’ identità e una credibilità (e funzionari affidabili) e la destra è la solita e approssimativa di sempre. Che lo si accetti o no, il fascismo continua a essere, come diceva Piero Gobetti, l’autobiografia degli italiani).
Questo, per me, il quadro. Ma in giro per l’Italia conosco un mucchio di persone perbene, anche di “intellettuali” nel modo tradizionale in cui li si in tende a catalogare, e soprattutto conosco “intellettuali” della specie più concreta, che oggi vengono chiamati in generale “operatori culturali” quando si occupano di cultura fuori della scuola (anche nella scuola c’è qualcuno per bene, anche se davvero pochi: la mediocrità del “ceto pedagogico” è tra le cose più imbarazzanti della nostra realtà), e si tratta di tante e tante e tante persone, nella società italiana di oggi! Se consideriamo “intellettuali” anche gli “operatori sociali”, a volte supini a logiche di piccoli interessi di associazione e ai ricatti della sopravvivenza ma a volte, più raramente, splendidi esempi di “ben fare” e di resistenza al degrado morale e sociale, ecco che, quattro qua e due là, il numero si fa grande. Sarebbero comunque tanti e potrebbero comunque molto, questi “intellettuali”, queste persone che non si rassegnano a “viver come bruti” ma intendono ancora seguire “virtù e conoscenza”, non fosse che si sentono giustificati dal loro ben fare, di quello si accontentano e non cercano i modi di allargarlo, coinvolgendo e “contagiando” altri, dandosi scopi più vasti che quello della salvezza della loro pulizia interiore ed esteriore. Certo, è molto più facile, rassicurante, sentirsi dalla parte del bene, far bene il proprio e lamentarsi del mal fare degli altri, dei più – i “politici”, le “maggioranze”. Movimenti e movimentini nascono e muoiono, prigionieri di una distorta e ricattatoria visione della politica; intelligenze nascono e muoiono, prigioniere del proprio “particulare” e dei ricatti di un sistema intimamente corrotto. Come uscirne, e tornare a ragionare fattivamente, facendo nascere pratica dalla teoria e azione dal pensiero, ma anche pensiero dall’azione e teoria dalla pratica? Tentando e non è facile di rendersi adeguati all’analisi dei grandi problemi, alla drammaticità delle scelte che oggi si impongono al mondo, alla responsabilità verso il presente e il futuro, fuori dal vento delle voghe e dei media, alla balorda idea del “successo”, alla peste che sempre più viene ossessivamente diffusa della stupidità singola e collettiva (il finto individualismo di chi è convinto di ragionare con la propria testa e ragiona invece con le idee che gli vengono trasmesse dal potere). Ho poche ricette morali personali, e le dico senza enfasi e senza affatto credere che siano le sole giuste. Sono: girare molto e interrogare la realtà vera del paese, ma non “frequentare” i luoghi ufficiali della cultura; stare “quasi ai margini” e non volere invece collocarsi “quasi al centro”; partecipare a iniziative di gruppo, non solo intellettuali; ritenere che la comunicazione vera è quella che si pratica “da pochi a pochi”; occuparsi dei giovani e diffidare degli adulti; studiare di più; ostinarsi a credere che si può sempre fare qualcosa di buono e di utile prima della fine; fare riviste (di area, non di gruppo) invece che libri; mantener vive le doti concomitanti della curiosità e della generosità; continuare ostinatamente a considerare che in ogni uomo, per quanto soffocata, c’è una piccola luce che lo collega alla luce universale.
Goffredo Fofi