Il mio miglior nemico. L'intricato rapporto tra gli agricoltori e l'Unione Europea

Cosa dimostra l’ennesima ondata di proteste del settore agricolo, o almeno di parte di esso, che ha bloccato strade e infiammato varie città europee e ovviamente la stessa “capitale” della UE, Bruxelles? Per rispondere, vale la pena lasciare sedimentare le emozioni e guardare alla cosa con occhio disincantato.Al di là delle posizioni di gruppi di interesse contrapposti, per l’ennesima volta torna prepotente il tema di quale politica agricola abbia oggi la UE, se ne abbia una che possa definirsi tale e se questa sia adatta alle sfide di questo secolo. Quanto ai trattori, ci saranno misure tampone, di breve periodo, tattiche ma non strategiche, atte a calmare gli animi. Mancano pochi mesi al rinnovo del Parlamento UE. L’importante è prendere i voti ora. Il futuro può attendere (i rapporti climatici, in realtà, e i nuovi rapporti di forza mondiale anche nel settore agroalimentare dicono il contrario…).
Il mantra che circola sui social è che il movente della protesta sia stato il rifiuto delle misure “verdi” (cioè agroambientali) ma questo si è solo sommato a un vecchio e ricorrente problema e cioè la richiesta di sostegno al reddito agricolo in un periodo di innegabile crescita dei costi di produzione. La fase congiunturale attuale è innegabile (guerra in Europa, costi dell’energia, ecc. che si riverberano anche sui mezzi di produzione). Ma le difficoltà degli agricoltori nel vedere remunerato il proprio lavoro non sono nuove. Nella (spesso complicata) filiera agroalimentare non sono certo loro a detenere le leve del comando. Così tornano periodicamente richieste di sostegno diretto al reddito (quindi richieste a UE e governi di metterci altri soldi pubblici) e/o di protezionismo (al momento il contenzioso, alimentato soprattutto dalla Francia, è nei confronti del Mercosur e cioè delle importazioni da Brasile e Argentina che sono due delle maggiori potenze agricole del mondo). Qualcosa, qua e là, verrà concesso, visto che siamo in periodo elettorale.
Ma il problema di fondo rimane eluso: e cioè che chi remunera (poco, di solito) gli agricoltori per il loro prodotto non sono i governi o una fantomatica “Bruxelles delle banche” e altre leggende. Sono la grande industria di distribuzione e di trasformazione alimentare. Senza dimenticare le fasi di raccolta, conferimento e trasporto, che non sono sempre e ovunque nella UE trasparenti ed efficienti. Ebbene, dove sono i picchetti di agricoltori davanti ai supermarket?
Qui ci sono problemi strutturali nell’agricoltura e nel mercato del cibo che la politica – cercando inevitabilmente la linea di minore attrito per i propri immediati interessi – preferisce ignorare. Qualche concessione, qualche elargizione di denaro pubblico e il problema viene anestetizzato. Non risolto.
Veniamo alle misure “verdi”. La cosa è già stata banalizzata sui media con titoli come «La UE ci avvelena con i pesticidi» ecc. In realtà nelle misure agroambientali degli eco-schemi ci sono una quantità di cose possono essere implementate senza infilarsi in quel tema socialmente controverso e ben poco compreso dal punto di vista scientifico. Rotazioni, riposo dei terreni, fasce di rispetto, ripristino o ricreazione di siepi, tutela degli ambienti di margine, inserzione di elementi “naturali” nel paesaggio agrario e altre ancora sono delle ottime idee per mitigare la semplificazione ecologica inevitabilmente connaturata nell’agroecosistema. Ci sono poi concetti come le cover crops, o carbon capture crops (cioè colture di copertura inserite tra quelle principali al fine di catturare CO2) che rientrano nell’ambizione europea di diventare il primo continente carbon-neutral. E probabilmente anche l’unico a diventarlo.
Molte delle misure “verdi” sono del tutto condivisibili. Ma la UE ha chiaramente sbagliato metodo e tempistiche. Imponendo dall’alto misure che probabilmente dovevano essere concertate alla base. E lo ha fatto pure in un momento sbagliato, in una fase di sofferenza del settore schiacciato tra alti costi di produzione e prezzi non remunerativi. E prima di un’elezione, offrendo il destro a forze politiche che stanno costruendo la loro narrazione, da sempre anti-UE, anche su una certa strisciante e montante insofferenza per misure ambientali, climatiche o di semplice buon senso.
In realtà è la stessa politica agroambientale della UE, la famosa (o famigerata) «Farm to Fork», a essere piena di cose incoerenti, scollegate dalla realtà, una specie di compendio frettoloso di tutto quello che suona “verde” e che bisognava comunque inserire nel testo. E che invece prima dovrebbe venire dimostrato di esserlo veramente, di beneficio ambientale, e di potere venire applicato su scala sufficiente. Quando gli agricoltori si lamentano della incongruenza delle misure, e anche della difficoltà obiettiva a recepirne alcune, non se lo stanno inventando. Mi auguro che la Commissione UE ritorni con proposte più sensate e meglio realizzabili, evitando l’imposizione di burocrazia a tappeto e promuovendo invece, magari tramite le realtà regionali di assistenza e sviluppo rurale, una sostanziale riforma dell’ambiente coltivato e della filiera alimentare nel suo complesso, a livello paesaggistico, di bacino, di territorio.
Né la richiesta di sostegno al reddito né le misure “verdi” osteggiate sono il vero problema. Il problema è: cos’è la politica agricola europea oggi. Si chiama PAC (la C sta per comunitaria”). Iniziata nel 1962, si tratta di un gigantesco trasferimento di risorse dal contribuente al settore agricolo. Per il ciclo attuale si tratta di 387 miliardi di euro, circa 60 all’anno. Fate i conti di quale può essere la cifra totale dal ’62 a oggi. È un terzo del budget europeo, a sostegno di un settore che però rappresenta 1,4% del PIL europeo. In realtà si tratta di un programma che di europeo ha solo lo stanziamento e l’allocazione dei soldi, le politiche sono poi nazionali. È sempre istruttivo vedere come governi eletti su agende anti-Ue non si tirino mai indietro quando c’è da incassare e distribuire.
La PAC ha risolto il problema, evidente nel 1962, dell’autosufficienza alimentare europea. Un continente provato da due guerre mondiali consecutive in cui razionamenti e penuria alimentare erano appena dietro l’angolo, e in cui si abbandonava la terra e si emigrava per fame. Ma gli anni sono passati, il mondo cambia a velocità accelerata e le sfide di domani non saranno quelle di ieri. Sussidiare gli agricoltori non ferma il tempo che corre e un mondo che cambia. Tra il 2005 e il 2020, oltre 5 milioni di aziende agricole di piccole dimensioni (sotto i 5 ettari e perlopiù in zone marginali) hanno chiuso i battenti. Questo esodo non si fermerà. Non ci sarà nessun “ritorno di giovani alla terra”, non negli stessi numeri. Ma molto altro sta cambiando (questi e i prossimi sono tutti dati ufficiali Eurostat). Gli agricoltori europei, come tutto il resto della popolazione, stanno invecchiando drammaticamente e nei prossimi 10 anni ci sarà un tracollo: oggi uno su 3 ha più di 65 anni e oltre la metà ne ha dai 55 in su. Piaccia o meno, se non coltiveranno i droni non lo farà più nessuno.
L’ascesa di giganti agroalimentari come Cina o Brasile ha già cambiato le regole del gioco nei flussi di derrate e prodotti a livello globale. Ogni anno che passa, 100 milioni di asiatici e africani entrano nella “classe media globale”, si comprano il frigorifero e competono nella domanda di cibo. Lo sapete (o forse no) che le esportazioni agricole russe crescono a crescere a dispetto delle sanzioni NATO? Certo, perché quando hai come vicini 3 miliardi di nuovi consumatori di cibo come i cinesi e gli indiani, puoi anche fare a meno delle UE che, vista dal centro della enorme massa euroasiatica, è solo una piccola penisola in alto a sinistra che quasi esce dalla carta geografica. Per non parlare dell’orologio che batte più inesorabilmente di tutti, quello del clima.
Le proteste dei trattori non sono una novità e non si fermeranno qui. Entriamo in tempi di incertezza e cambiamento. Ferocemente dibattuta tra gruppi di interesse contrapposti, la politica agricola comunitaria è l’emblema di un’Europa che non sembra sapere da che parte andare. E che probabilmente non andrà da nessuna parte. Qualcun altro, o qualcosa d’altro, decideranno per noi: il mondo tutto attorno. E il cambiamento climatico.

Mauro Balboni

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