Giovane a chi? Ai dattilografi e a chi si ribella alla dettatura

Sui giovani e sugli immigrati si scrivono e si dicono cose simili. Di entrambi si parla molto, ma raramente viene data loro la parola. In collaborazione con l’Ufficio Giovani della Provincia, abbiamo provato a farlo nello speciale “My Generation” e continueremo a farlo attraverso il progetto “I sogni in tasca” in collaborazione con Vintola 18, Unibz e il Teatro Stabile di Bolzano.
Per i progetti citati, abbiamo incontrato adolescenti, ventenni e trentenni che, evidentemente, parlano solo se interrogati, ma che, non solo ci hanno fornito risposte molto interessanti, ma hanno fornito una chiave possibile per entrare nelle loro stanze.
Nello speciale “Giovane a chi?”, invece, si è tentato di comprendere quanto sia cambiato il mondo giovanile negli ultimi quarant’anni, ovvero da quando, nel giugno del 1983, è stata approvata la legge provinciale che ha avviato il Servizio Giovani.
Come le lettrici e i lettori più attenti avranno già compreso, di seguito si proverà a fare il punto di quanto ascoltato, letto e scritto fino ad ora. Lo si farà cercando di evitare le pur inevitabili generalizzazioni, limitandoci a quanto osservato e ascoltato in questi mesi.

Cosa è cambiato?

A partire dall’inizio degli anni Ottanta, i giovani hanno abbandonato il ruolo di soggetto politico per trasformarsi in oggetto, spesso definito da altri, e, almeno all’apparenza sempre più disinteressato a quel che li circonda.
I giovani che abbiamo incontrato e intervistato non si disinteressano del mondo, anzi, hanno mostrato una sorprendente attenzione ai temi sociali e politici. Spesso, però, si sono autodefiniti un’eccezione rispetto ai loro coetanei, evidenziando come si trattasse di un’attenzione del tutto personale e individuale, confermando, nei fatti, l’idea di  “bolla solitaria”, a cui abbiamo dedicato uno specifico articolo all’interno di questo speciale.
Alcune risposte dei ragazzi intervistati per “My Generation” risultano emblematiche. Alla domanda “Come vi vedete tra dieci anni?”, hanno preferito non rispondere e si sono limitati a sbuffare. Altri hanno risposto con un poco promettente “se ci arrivo…”.  Solo Yussef, giovane promessa del pugilato altoatesino, uno che, non solo metaforicamente, è stato preso a cazzotti dentro e fuori dal ring, ha espresso chiaramente la propria opinione fregandosene del registratore acceso: “Solo ora mi accorgo dell’errore dei miei coetanei che pensano che nel futuro non cambierà nulla. La pensavo così anche io e finivo per riempirmi le giornate con le cavolate. Non avevo obiettivi e vivevo alla giornata, finendo spesso nei guai. Non so cosa sia successo rispetto al passato, ma oggi chiedere a un giovane come si immagina tra dieci anni è una domanda cattiva”.
In effetti, sullo sfondo di ogni intervista è emerso piuttosto chiaramente un forte senso di sfiducia e disincanto che sembra impedire a molti ragazzi di tornare a prendere in mano il proprio futuro. La pandemia, la crisi climatica e le guerre aiutano a comprendere le ragioni di questi sentimenti, ma lo scarso entusiasmo e la mancanza di ottimismo non si spiegano solo così. I giovani del Novecento hanno vissuto due guerre mondiali, la paura nucleare, gli anni di piombo e quelli dell’eroina, ma non si sono rassegnati. Anzi, hanno reagito in maniera anche violenta allo status quo. Quindi, cosa è cambiato? Solo spostando le domande verso gli anni dell’infanzia si è riuscito a comprendere il fondamentale cambiamento avvenuto negli ultimi quarant’anni.
A cominciare dagli anni Ottanta, e in maniera sempre più evidente col passare dei decenni, le famiglie italiane hanno smesso di fare figli. I cortili in cui i  bambini giocavano a nascondino o a calcio si sono trasformati in parcheggi. I ragazzini si sono ritrovati sempre più soli, senza fratelli, cugini e amici con cui giocare e allearsi contro il mondo gli adulti. Le compagnie di amici formate da venti o trenta ragazzi sono ormai un’eccezione. Nel  giro di poco più di un decennio, i bambini hanno smesso di “giocare a pallone” per “andare a calcio”. Nemmeno troppo lentamente, i palloni o le corde per saltare, i giochi in strada o al parco, sono stati sostituiti da smartphone, tablet e Play Station. Giocare a calcio, basket o hockey si è trasformato nel “fare sport”, un impegno come un altro, forse solo un po’ più divertente. E’ in questi anni trent’anni che l’intrattenimento ha sostituito il gioco.

Una generazione di dattilografi?

Adolescente è il participio presente di “adolescere”, “crescere”, ma come si può crescere in solitudine, circondati da un mondo di adulti che ha smesso persino di indicare la strada da (non) seguire? Rientrare in ritardo, fare le cose di nascosto, disobbedire, era una componente essenziale dell’adolescenza e della crescita.  Ovviamente nessuno rimpiange i genitori conservatori e autoritari, ma troppi bambini si sono ritrovati a vivere in una sorta di ipermercato in cui poter scegliere liberamente cosa prendere e soprattutto cosa acquistare. Ma come sanno tutti coloro che frequentano gli ipermercati, si finisce sempre per prendere quello che non serve. Il risultato? Una moltitudine di giovanissimi dattilografi che riempie il proprio foglio bianco con le parole degli altri, vivendo una vita sotto dettatura.
In questo contesto, crescere in Alto Adige può essere ancor più complicato che altrove. Perché il conformismo che contraddistingue tutte le città di provincia è rafforzato dal benessere e dall’idea che litigare con il proprio vicino possa portare a conflitti pericolosi.
Meglio quindi rintanarsi nella propria zona di comfort godendosi panorama e morbidi cuscini. Non fosse per quella dannata noia che spinge a prendere in mano lo smartphone per fare passare il tempo non pensando a nulla.

E’ vero, nonostante le premesse, si è finito per generalizzare. Le interviste ai ragazzi di “My Generation” e quelle che seguiranno per “Sogni in tasca” dimostrano che, fortunatamente, la realtà è meno “univoca” è molto più variegata e ricca. Quindi, non lasciateli e non lasciateci soli.

Massimiliano Boschi

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