"Si devono difendere le proprie idee anche quando si rischia". Dacia Maraini a Bolzano

“Sono anni che sto scrivendo questo libro, ogni volta cominciavo e poi lasciavo. Mi era doloroso, come aprire vecchie ferite. Ora, però, con le minacce di guerra che si alzano da tutte le parti, ho pensato che era necessario pubblicare una testimonianza dettagliata di un’esperienza di guerra vista da una bambina” così ci risponde Dacia Maraini, una della più importanti scrittrici italiane, quando le chiediamo cosa l’abbia spinta a ritornare, nel suo ultimo libro “Vita mia” (Rizzoli, 2023) agli anni di prigionia in Giappone, in un campo di concentramento per traditori. Era il 1943 e il padre Fosco Maraini, che allora insegnava all’Università di Kyoto, e la madre Topazia Alliata si erano rifiutati di giurare fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò. Nel libro, la cronaca dei mesi di prigionia, al limite dell’esistenza tra fame, gelo, malattie e vessazioni, sgorga con lucida naturalezza dalla voce di Dacia Maraini bambina -che allora aveva sette anni- e lascia in chi legge immagini ed emozioni che non si dimenticano facilmente. Ne abbiamo parlato con la scrittrice, che giovedì 22 febbraio alle ore 17  sarà ospite alla Nuova Libreria Cappelli di Bolzano per parlare, in dialogo con Patrizia Daidone, dei suoi libri “Vita mia. Giappone, 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia” e  “Nel nome di Ipazia. Riflessioni sul destino femminile” (Solferino libri), mentre alle ore 20 sarà al Teatro di San Giacomo in dialogo Francesca Romano Baldacci.

In “Vita mia” lei fa un parallelo che mi ha molto colpito raccontando delle ferite al ginocchio che le capitavano da bambina; mentre quelle che lei  chiama “le ferite della pace”, le sbucciature cadendo dalla bicicletta quando la guerra era finita non duravano così tanto, la ferita che si era procurata cadendo su una bottiglia rotta a Tokio non voleva guarire, era come un “timbro della guerra”…
In effetti le ferite della pace guariscono facilmente, mentre le ferite della guerra lasciano cicatrici indelebili.  La guerra non comporta solo un dolore privato e terribile, ma sofferenze che si dividono con una comunità, un paese e addirittura tutto il mondo e questo colpisce più profondamente. Non sei solo tu a patire, ma migliaia di persone e molte di queste muoiono.  Quindi alla fine capisci che sei fortunata perché sei sopravvissuta all’orrore e devi fare di tutto perché non si ripetano le stesse mostruosità.

Nel suo racconto le terribili condizioni di vita e le esperienze vissute durante la prigionia in Giappone da lei e dalla sua famiglia emergono forti eppure insieme al racconto c’è sempre qualcos’altro, una specie di serena e forte fiducia di fondo che non lascia passare la disperazione… è così? Da cosa deriva?

Direi di sì, che una serenità di fondo l’ho imparata dai miei meravigliosi genitori. Il fatto che avessero scelto di rischiare per difendere le proprie idee mi ha dato sempre una grande forza. Qualcuno in famiglia li ha rimproverati per avere fatto rischiare alle figlie bambine, ma io penso che abbiano fatto bene. Si devono difendere le proprie idee anche quando si rischia. E inoltre durante tutto il tempo della prigionia, per quanto ci fossimo ammalati per la fame e le privazioni, ridotti a pelle e ossa, col beri beri e lo scorbuto che ci facevano perdere i capelli, sanguinare gengive e perdere le forze, pieni di pidocchi e di pulci, mio padre e mia madre non hanno mai perso  la forza di resistere. Mia madre, anche quando aveva le gambe paralizzate continuava a rammendare i calzini delle guardie per ottenere un uovo (da dividere in cinque) o una rapa.

La copertina del libro “Vita mia”

E poi, nonostante tutto, c’è l’arte: lei scrive che sua madre le cantava  l’aria del coro muto dell’opera Madama Butterfly, raccontava storie, e poi c’era la poesia di suo padre… Quanto tutto questo ci può aiutare ancora oggi a non perdere il “demone della lucidità”?

Anche mia madre scriveva con una matita  su un quadernino  che è durato finché è durata la matita. Mio padre scriveva poesie. Ma siccome era proibitissimo scrivere , li nascondevano nella pancia di un orsacchiotto di peluche che mia sorella Yuki teneva sempre con sé e siccome  quando lo toccavano urlava, glielo avevano lasciato. Era un vecchio orsacchiotto spelacchiato, ma aveva una piccola cerniera sulla pancia che poteva contenere qualche foglio e una matita minuscola.

Nella sua visita in Alto Adige lei presenterà anche il suo libro “Nel nome di Ipazia” : data la sua esperienza, qual è il messaggio che si sente di lanciare perché le donne siano veramente libere, anche nella nostra parte d’Europa “fortunata”? Cosa direbbe ad una giovane ragazza, oggi?

Alle ragazze direi, come dico quando vado nelle scuole, di leggere la storia. Purtroppo la conoscenza della storia nelle scuole non arriva all’ultima guerra , cosa che le aiuterebbe a capire molte cose. L’ignoranza della storia recente porta  a non rendersi conto quando vengono ripetuti  gli stessi errori. Questo ci insegna la cronaca. Direi loro che la memoria è una grande forza per affrontare il futuro, che la conoscenza ci rende forti e liberi, per questo è importante leggere, capire, indagare, memorizzare.

Caterina Longo

Immagine in apertura Foto ©Fabio Lovino/Rizzoli

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