"Le preziose oscillazioni di una terra ironica e sorniona". Trieste e l’Istria secondo Mauro Covacich

“Avendo bisogno urgente di questi appunti per l’ultimazione del mio lavoro letterario intitolato ‘Ulisse’ ossia ‘Sua Mare Grega’ rivolgo cortese istanza a Lei, colendissimo collega, pregandoLa di farmi sapere se qualcuno della Sua famiglia si propone di recarsi prossimamente a Parigi, nel quale caso sarei gratissimo se la persona di cui sopra vorrebbe avere la squisitezza di portarmi la mappa indicata a tergo. Dunque, caro signor Schmitz, se ghe ze qualchedun di Sua famiglia che viaggia per ste parti la mi faria un regalo portando quel fagotto che non ze pesante gnanca per sogno parchè, la mi capisse, ze pien de carte che mi go scritto pulido cola pena e qualche volta anca col bleistiff quando no iera pena. Ma ocio a no sbregar el lastico parché allora nasserà confusion fra le carte. El meio saria de cior na valigia che si pol serrar cola ciave che nissun pol verzer. Ne ghe ze tante di ste trappole da vender da Greinitz Neffen rente al Piccolo che paga mio fradel el professore della Berlitz Cul (sic!). Ogni modo la mi scriva un per di parole, dai, come la magnemo…”.
Questa la lettera che James Joyce scrisse il 5 gennaio 1921 ad Aron Hector Schmitz, noto ai più come Italo Svevo, nom de plume scelto per omaggiare le due culture, italiana e tedesca, in cui Schmitz si era formato.
L’uso del dialetto triestino da parte di Joyce non dovrebbe stupire più di tanto. L’autore de “L’Ulisse” visse per quindici anni nella città giuliana e a quei tempi, ma anche nei decenni successivi, il triestino era la lingua franca utilizzata da italiani, slavi e tedeschi che risiedevano in città.

Quanto scritto fin qui, sembra evidenziare anche le grandi differenze tra la zona di frontiera triestina e quella altoatesina e i rispettivi rapporti col mondo, ma è davvero così o sono solo affascinanti suggestioni, che poco hanno a che fare con la realtà?
Per comprenderlo, abbiamo chiesto aiuto a Mauro Covacich, pluripremiato scrittore triestino che alla sua città natale ha dedicato molte attenzioni, diversi scritti e alcuni libri.  In questi mesi, Covacich sta girando l’Italia con “Svevo” conferenza spettacolo dedicata al già citato Aron Hector Schmitz e al suo “La coscienza di Zeno”, uno spettacolo che di recente ha toccato anche Bolzano fornendoci la perfetta occasione per “intercettarlo”.

https://www.youtube.com/watch?v=E_LEciwxjoY&ab_channel=TeatroStabilediVerona

Date le premesse, non stupirà nessuno che la prima domanda rivoltagli abbia riguardato l’Istria – di cui Trieste è “porta d’ingresso” – e il suo particolare rapporto con confini e nazionalismi.  “L’Istria, anche grazie alla sua fortunata posizione geografica – premette Covacich – ha sempre goduto di una sua estraneità ai grandi nazionalismi che l’hanno assediata nei secoli, prima quelli italiani e austriaci del primo novecento, poi quelli sloveni e croati, ancora in auge appena ci si spinge nell’interno”.

Lapide a Koper/Capodistria

Detto dell’Istria, Covacich è passato agli istriani: “La gente del posto è sempre stata pacifica e fortemente consapevole della propria anomalia, diciamo della propria mescolanza, ma di fatto tutta la Venezia Giulia, ovvero l’Osterreichisches Kunstenland, è popolata a macchia di leopardo da piccole comunità italiane, slovene e croate. C’è poi anche un tratto spiccatamente ironico e sornione nel carattere degli istriani che rende tutto più facile, anche se basta spingersi a Pola e le cose già cambiano, soprattutto per le nuove generazioni, che trovano nella Croazia dell’interno, in quella “metropolitana” di Zagabria, il loro polo d’attrazione e volutamente non hanno imparato l’italiano (così come a Trieste gli italiani volutamente non hanno mai imparato lo sloveno), con il risultato che ora i giovani di entrambi i paesi si parlano in inglese, devo dire senza alcun risentimento o tara ideologica, avendo di fatto superato tutti gli attriti e le ostilità che hanno segnato le nostre terre dal secondo dopoguerra fino alla dissoluzione della Jugoslavia”.
Chiarito anche questo aspetto, è iniziato l’avvicinamento a Trieste e al suo dialetto come “lingua franca”. “Alla luce dei cambiamenti appena descritti – precisa Covacich – il dialetto triestino ha smesso quasi del tutto la sua funzione di collante, mantenendo però, almeno in città, ancora la sua implicita espressione di non appartenenza. A Trieste lo si parla in tutti gli ambienti, a tutti i livelli sociali, in tutti gli spazi pubblici. Ma non credo si tratti di campanilismo, semmai sembra il segno di una preziosa oscillazione: sono italiano ma non mi sento tale, mi sento italiano ma non lo sono…”.

Trieste: Piazza Unità d’Italia (foto Venti3)

La Trieste di oggi, però, non è più quella di Joyce e di Svevo, anche se, come sottolineato dallo stesso Covacich nel suo “Trieste sottosopra”: “L’amministrazione comunale si è accorta che i turisti vengono a Trieste in cerca di fin de siécle, in cerca di lampioni liberty, di mostri sacri della letteratura. E glieli vuole dare (…) Nel frattempo ha già resuscitato i maestri di penna. Insomma, l’idea credo sia quella di un delizioso parco tematico”. Chiedere a Covacich quanto apprezzi questa tendenza risulta inevitabile: “Non so, a me irritano parecchio le ricostruzioni artefatte, le rievocazioni storiche, i locali arredati in finto stile asburgico, tutto questo fiorire di bar Saba e osterie Joyce, o peggio, le panchine anticate, i lampioni in stile liberty installati di fresco… La letteratura venduta come attrazione da lunapark, il famoso business del turismo culturale. No grazie”. Altrettanto inevitabilmente arriva il “però”.
“Però  – prosegue –  basta allontanarsi dalle quattro vie dello struscio e si viene sorpresi da un’atmosfera che facilmente ci riporta ai romanzi di Svevo, alle poesie di Saba, alle scorribande espressive di Joyce, che ha potuto sprofondare nell’inglese e partorire l’Ulisse grazie anche, paradossalmente, all’isolamento linguistico che ha vissuto a Trieste, dove praticava la sua lingua (sua fino a un certo punto, essendo irlandese…) solo nelle lezioni che teneva ai principianti della Berlitz School. Basta farsi quattro passi in viale XX settembre, oppure sedersi un minuto al Caffè San Marco per accorgersi del genius loci senza che sia propagandato sulle insegne lampeggianti”.
In chiusura, ritorniamo alla lingua, anzi alle lingue, a quelle di Svevo e di Trieste, soprattutto a quelle che “sono lì a rammentarti che non sei a casa tua”.
“Svevo ha vissuto in una Trieste dove la lingua ufficiale era il tedesco (parlato nelle istituzioni e negli uffici fino al 1918) e la lingua corrente il dialetto triestino per cui, come dice lui stesso nelle lettere al redattore della casa editrice Cappelli che ha pubblicato la Coscienza nel 1923, l’italiano è sempre rimasto nella ‘sua testa isolata’. Non aveva occasione di praticare se non molto raramente l’italiano, che ha scelto come lingua letteraria perché apparteneva alla sua idea di cultura umanistica (ma non aveva una formazione classica, ha fatto scuole tecnico-commerciali). Svevo era un ricco uomo d’affari, molto impegnato all’estero, parlava bene il tedesco, il francese, discretamente l’inglese (imparato a lezione da un certo professor Joyce…) e scriveva in italiano, aveva cioè scelto come propria una lingua acquisita, ma la sua grandezza è stata quella di averlo detto esplicitamente, di averlo precisato in almeno quattro punti della Coscienza di Zeno, trasformando un limite in una risorsa. Basti pensare al meraviglioso ultimo capitolo, dove tende un tranello a noi lettori: voi pensavate di aver letto le mie confidenze più intime, quando invece avete letto le confidenze che io sono riuscito a mettere in italiano. Geniale”.

Trieste: Molo Audace (Foto Venti3)

Innegabilmente, ma Svevo, come Covacich, porta il lettore dove non vuole andare, quindi, inevitabilmente, anche lontano da nazionalismi e altri facili approdi identitari.
O forse, più semplicemente, è una caratteristica peculiare dello scrivere che, come spiega Coetzee in una frase che Covacich utilizza come “scenografia” del suo “Svevo” teatrale: “E’ la scrittura a rivelarti quello che volevi dire, anzi a volte è lei che costruisce quello che vuoi o che volevi dire”. (J. M. Coetzee, Doppiare il capo, Einaudi, Torino 2011)

Massimiliano Boschi

Immagine di apertura: Molo Audace di Trieste (Foto Venti3)

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