Ospedale, lì dove giocheremo (ancora) la prossima partita

Il viaggio di «Alto Adige doc» è partito il 16 febbraio 2019 con una puntata dedicata all’ospedale di Bolzano.  Per l’occasione scrivevo: «Nonostante siano le 15.30 di un giorno feriale, sembra un centro commerciale nel primo weekend di saldi». Una tipica osservazione di chi non conosce bene il contesto.

Come recitava un comunicato stampa dell’azienda ospedaliera del maggio 2018: «L’ospedale di Bolzano si estende su un’area di circa 16,5 ettari. Vi accedono quotidianamente circa 7.500 persone, tra personale ed addetti, pazienti e visitatori, fornitori di merci e di servizi. La struttura ha registrato nell’ultimo anno circa 26.000 ricoveri e circa 6.000 ricoveri in regime diurno, nonché circa 4.200 prestazioni in day service. Gli accessi al pronto soccorso oscillano negli ultimi anni tra i 90.000 e i 100.000».

Chi ancora dubitasse dell’importanza degli ospedali nella gestione dell’emergenza e nel contenimento del virus rifletta sui numeri appena citati. In tempi normali, ogni giorno all’ospedale di Bolzano accedevano 7500 persone, quale altro luogo della città poteva registrare tali frequenze? Se alla quantità sommiamo la qualità – il tipo di persone che frequentano l’ospedale, innanzitutto i malati – si comprende definitivamente come la battaglia contro la diffusione del Covid 19 si combatta soprattutto nelle strutture ospedaliere.

A seguito dell’emergenza, le prestazioni ospedaliere sono state drasticamente ridotte. Molte visite e operazioni sono stati rinviate, ma la fasi 2 e 3 riguarderanno anche questi aspetti e gli effetti dipenderanno ancora in maniera fondamentale dalla gestione della sanità pubblica. Lo dimostrano i numeri, ma anche gli esperti: Ernesto Burgio dell’European Cancer and Environment Research Institute ha scritto un lungo e preciso articolo intitolato «Covid 19 – il dramma italiano»,  pubblicato sul «Wall Street International Magazine« del 27 aprile scorso. Le sue affermazioni differiscono da quelle di altri suoi colleghi ricercatori solo per l’estrema chiarezza: «La procedura aurea per cercare di fermare una pandemia è affrontarla sul territorio, salvaguardando gli ospedali, come hanno fatto i Paesi asiatici (che si preparano a queste emergenze da 30 anni). Avremmo dovuto organizzare percorsi alternativi per impedire al virus di entrare negli ospedali attraverso i pronto soccorso: organizzando ospedali militari e altre strutture alternative per la quarantena positiva; testando e monitorando i contatti interpersonali; proteggere adeguatamente gli operatori sanitari assegnati al controllo SARS CoV2; organizzare reparti ospedalieri e in particolare unità di terapia intensiva dedicate esclusivamente ai Covid. Trascurando queste regole di base, si rischia di trasformare gli ospedali in santuari dei virus. Dopotutto, alcuni articoli hanno indirettamente riconosciuto il possibile ruolo degli ospedali nell’amplificare e perpetuare l’epidemia».

L’articolo di Burgio contiene altre numerose informazioni anche relative al ritardo con cui è partito il lockdown in Europa e sull’errore di non aver compreso rapidamente «che stavamo affrontando una pandemia e non un normale virus della parainfluenza». Ma un altro passaggio può risultare  utile per comprendere come attrezzarsi al meglio per le settimane a venire.

«L’errore principale che ha prodotto le conseguenze più dolorose dell’epidemia di Covid-19 in Italia è stata l’insufficiente informazione e protezione del personale sanitario e l’incapacità di adattare il sistema sanitario nazionale a un’emergenza che sembra essere solo all’inizio. Sarebbe importante, a questo punto, prendere le giuste precauzioni, prevedere e adattare i servizi sanitari occidentali allo scenario peggiore possibile, che con riferimento alle pandemie moderne è rappresentato dall’influenza spagnola del 1918-20, dove l’espansione della pandemia progredì attraverso una sequenza di passaggi sempre più mortali. (…) Di fronte a una situazione  che potrebbe durare per mesi e riapparire in una forma ancora più drammatica in un secondo momento, non sarebbe sufficiente mantenere le attuali condizioni di blocco per lungo tempo, semplicemente aspettando l’epidemia si plachi. Sarebbe necessario capire che le misure di contenimento possono servire a rallentare la diffusione di una pandemia, ma devono essere integrate con una rapida ed efficace riorganizzazione dell’intero sistema sanitario per affrontare questo e altri futuri allarmi di pandemia sempre più probabili».

Da questo punto di vista in Alto Adige siamo pronti? Difficile saperlo, la gestione dell’emergenza è passata da troppi pochi giorni ed avere informazioni precise è complicato. Le voci che provengono dai chi lavora quotidianamente all’ospedale di Bolzano non sembrano tranquillizzanti, ma è difficile verificarle in un contesto come quello attuale.

Quel che è certo è che in una situazione di incertezza come quella attuale chi mostra troppa sicurezza rischia di apparire sospetto. L’assessore provinciale Thomas Widmann, per esempio, in una recente conferenza stampa ha dichiarato che «l’Alto Adige è una provincia all’avanguardia nazionale e internazionale». Perché «in proporzione sono stati effettuati il doppio dei tamponi di Austria e Germania»  e perché «sin dall’inizio abbiamo dato grande valore ai test».

Pur dando un peso relativo alle parole, andrebbe compreso cosa si intenda con «sin dall’inizio». Perché tocca ricordare per l’ennesima volta che in data 5 marzo (fonte Protezione Civile) in Alto Adige erano stati effettuati 20 tamponi, in Lombardia oltre 12000, in Veneto quasi 12000, in Emilia Romagna 2800, nel Lazio 1100. Attualmente, in Alto Adige sono state sottoposte a tampone circa 20.000 persone su 500.000 abitanti. Un ottimo risultato, ma sarebbe meglio evitare paragoni con la Germania che ha 83 milioni di abitanti.

Ai cittadini dell’Alto Adige/Südtirol non interessano le classifiche, ma si sentirebbero più tranquilli se, per esempio, ci venisse raccontato nei dettagli come sarà organizzato il triage nella fase 2 quando gli ospedali proveranno a tornare alla normalità e, sopratutto, come si intende aumentare in maniera decisa il numero dei letti in terapia intensiva. Non si vogliono negare gli sforzi fatti e i risultati ottenuti in Alto Adige nella gestione dell’emergenza, ma si chiede che ognuno continui a fare quanto necessario per evitare “ricadute” senza pensare di aver risolto la questione perché ci mancano tanto i turisti. Evitiamo di ricadere negli errori del passato.

Ripetere ossessivamente che in Alto Adige la situazione era tranquillissima non ha evitato che la Germania inserisse la nostra provincia tra le zone a rischio insieme alla Lombardia. Era il 6 marzo 2020, sono passati solo due mesi.

Massimiliano Boschi

 

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