Mounia, il velo dei pregiudizi e quel tricolore appeso al balcone

Alto Adige Doc: la rubrica che racconta l’Alto Adige lontano dagli stereotipi. Per chi si fosse perso qualche puntata precedente, nessun problema: eccole tutte.

La prima volta che ho incrociato Mounia El Hakim mi trovavo a Bolzano sul bus numero 3 diretto a Casanova per un sopralluogo per il documentario “Il mostro invisibile” di Frabiato Film. Alla fermata di Piazza Ziller dalla porta dell’uscita sono salite una donna con il velo e un’anziana. Di fronte alla «intollerabile trasgressione», un passeggero si è sentito in dovere di riportare l’ordine: «Questa è l’uscita, si deve salire dal davanti!». La donna velata ha accompagnato l’anziana a sedere e poi ha tranquillamente risposto che essendo in compagnia di un’anziana che faticava a camminare, aveva tutto il diritto di salire dalla porta più vicina.
L’improvvisato “portinaio da autobus” ha mormorato a testa bassa che non si faceva insegnare le regole da lei, la donna, a testa alta, ha ripetuto che non aveva violato nessuna regola. Nessuno è tornato sull’argomento fino alla discesa della donna e della sua assistita, poi si è scatenato l’ormai abituale mormorio contro gli stranieri che non rispettano le leggi e che vorrebbero imporci il loro stile di vita. Nessuno, ovviamente, si è appellato ai primi due basilari “Diritti dei passeggeri” elencati su ogni bus: «Chi sceglie gli autobus di Sasa ha diritto di viaggiare in sicurezza, viaggiare senza alcuna discriminazione diretta o indiretta in base alla cittadinanza».

Dal canto mio ho cercato di identificare la donna col velo per poterla inserire nel documentario.
E’ così che ho conosciuto Mounia El Hakim, è così che è diventata una delle protagoniste del documentario. Le telecamere, però, spesso mettono in imbarazzo e favoriscono la recitazione rispetto alla spontaneità per questo ho chiesto a Mounia di tornare a incontrarmi a mesi di distanza dalle riprese. Per avere nuovi dettagli e per togliere ogni imbarazzo. Ci siamo incontrati al Centro Trevi dove Mounia, accompagnata dalla madre, non era mai entrata.
Lì le ho chiesto di raccontarmi tutto dall’inizio, in particolare del suo arrivo in Alto Adige:

«Sono nata a Casablanca in Marocco, dove è nata anche mia madre – mi ha spiegato -. Nel 2001, quando avevo già due figlie, e dopo un passaggio da parenti a Parigi, ho raggiunto mio marito a Langhirano vicino Parma. Sono rimasta lì per circa sette mesi, ospite dei fratelli di mio marito, poi ci siamo trasferiti a Bolzano dove ho trovato un lavoro in regola e ho potuto sanare la mia posizione. Pochi mesi dopo sono rimasta incinta, ma questo non mi ha impedito di continuare a lavorare fino a 15 giorni prima del parto. Solo allora mi sono trasferita a Bressanone, ospite di Casa Rainegg perché la stanza in cui vivevamo non aveva spazio e non era adatta a una neonata».
In quei giorni è nata Aya che oggi ha sedici anni, ma i primi mesi non sono stati semplici: «Non avevo diritto alla maternità per cui non appena ho potuto mi sono messa a cercare un lavoro e a studiare l’italiano. Dopo sei mesi ho iniziato a lavorare in una casa di riposo, ho imparato un po’ di dialetto tedesco e dopo un anno ho finalmente trovato un appartamentino dove potevamo vivere tutti e tre, a Sciavez».

Le figlie maggiori erano ancora a Casablanca, mentre il marito continuava a cambiare lavoro spostandosi dove c’era bisogno, tra Trentino e Alto Adige. «Con il tempo siamo riusciti a sistemare le cose e così ci siamo potuti permettere un appartamento vero a Bolzano, in via Garibaldi. Io ho trovato lavoro in Questura come donna delle pulizie e finalmente abbiamo potuto farci raggiungere dalle due figlie Zara e Fatima».
La casa, però, rimaneva il problema maggiore, l’affitto di 1300 euro al mese si mangiava quasi tutto il reddito e non appena possibile si sono trasferiti in via Milano, dove riescono a spendere un po’ meno: «Nonostante il reddito e il numero di figli (dopo Aya sono arrivati Ajar, oggi undicenne e finalmente il maschio, Ryan, che ne ha dieci Ndr) non siamo mai riusciti ad avere una casa Ipes. Questo non ha impedito di venire comunque accusata di rubare la casa agli italiani. Io ho sempre lavorato da quando sono qui e ora sto cercando un nuovo lavoro visto che l’anziana con cui mi hai visto sul bus ha deciso di interrompere il rapporto di lavoro perché preferiva essere assistita da chi non porta il velo».

Un velo che Mounia ha iniziato a indossare solo quattro anni fa. «E’ una mia scelta che non mi impedisce di aiutare gli anziani o di fare le pulizie. Fa parte della mia cultura, la stessa che fa sì che gli anziani siano rispettati e sostenuti, quasi fossero dei santi. Però, da quando indosso il velo vengo vista con altri occhi, ma io non ho fatto nulla di male a nessuno. Perché dovrei cambiare la mia decisione? Per i pregiudizi altrui?».

Negli ultimi due anni la situazione è ulteriormente peggiorata: «All’inizio mi sentivo non solo accettata ma anche sostenuta, oggi, invece, trovare lavoro è diventato sempre più difficile e le scene come quelle a cui hai assistito in autobus sono aumentate. Io, però, non ho mai fatto nulla di male e anche io non sopporto chi ruba, spaccia o commette reati, ma non mi preoccupo di dove sono nati o della loro religione». Ovviamente, la preoccupazione maggiore riguarda i figli: «Tre sono nati qua. Vivono qui, studiano qui, parlano italiano, il loro futuro è in questa terra. Io voglio dare dei buoni figli all’Italia ma faticano ad essere accettati e non sono considerati italiani e ho paura che questo possa generare del forte risentimento».

Al momento, però, il sentimento pare essere molto diverso:«Qualche mese fa, mia figlia Aya mi ha chiesto di poter comprare una bandiera italiana che era in vendita in un supermercato. Io le ho detto che non era il caso visto come stavano andando le cose, ma lei l’ha messa comunque sul nastro della cassa e arrivata a casa l’ha esposta sul balcone. Ero perplessa, ma gliel’ho lasciato fare». Non mi serve altro, chiudo l’intervista e accompagno Mounia e la madre tra le varie sale del Centro Trevi. Arrivate al Centro Multilingue si soffermano davanti ai testi in lingua araba e si mettono a leggere i titoli, Mounia prende in mano un dizionario e decidono di iscriversi ai servizi del Centro. Le saluto mentre iniziano a compilare i moduli.

Massimiliano Boschi

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