Le mele di Biancaneve e quelle della Val Venosta. Ecco perché non vanno criminalizzati gli agricoltori

Mauro Balboni, laureato in Agraria, esperto di ricerca e sviluppo e di legislazione internazionale nel settore agrochimico, è autore di “Pianeta Mangiato” (2017) e “Il Pianeta dei Frigoriferi (2022), testi sui temi del cibo e della sostenibilità.

Nei giorni scorsi un articolo in prima pagina sulla Süddeutsche Zeitung e ripreso da vari media tedeschi ha, ovviamente, suscitato reazioni anche in Alto Adige. Immancabili, quando una prestigiosa testata tedesca sbatte in prima pagina l’immagine di una mela sudtirolese, anzi specificatamente venostana e non-bio, mentre viene letteralmente ricoperta di sostanze chimiche. E poco importa che sia un’immagine computerizzata e non realistica. Il caso finirà presto sommerso dal flusso incessante di nuove notizie ma pone domande importanti sul futuro del cibo e del territorio e questo ben oltre i confini altoatesini.
Ricostruiamo, per iniziare, la vicenda. Si tratta di un nuovo capitolo nella saga iniziata nel 2014 con il referendum comunale anti-pesticidi sintetici di Malles, impugnato dalla Provincia. Quello che ha scatenato questa nuova puntata è che, in seguito alle denunce a carico del Direttivo dell’associazione non governativa Umweltinstitut di Monaco di Baviera e in particolare a carico di Karl Bär, ex membro e attuale deputato al Bundestag tedesco con i Verdi (denunce poi ritirate tranne una per cui il Bär è stato assolto) la magistratura bolzanina ha ordinato di rendere disponibili al pubblico i c.d. quaderni di campagna di alcune centinaia di frutticoltori non bio venostani.
Il quaderno di campagna è un registro obbligatorio per tutte le aziende agricole, nel quale vengono riportati anche gli interventi con i prodotti fitosanitari per la difesa delle colture. Può venire controllato, a richiesta, da soggetti ufficiali quali le autorità sanitarie o i nuclei NAS dei carabinieri. In questo caso, invece, la pubblicazione ha consentito all’associazione non governativa anti-pesticidi Umweltinstitut di usarli in un proprio rapporto per calcolare carico ambientale e tossicità dei trattamenti pesticidi, indipendentemente dal fatto che tutti fossero regolarmente approvati per l’uso.

Ho analizzato questo rapporto, che è quello che è stato poi usato come base dalla Süddeutsche Zeitung, altri media e forze politiche per articoli e prese di posizione viarie. Di seguito le mie osservazioni.
Innanzi tutto, va detto che in questa vicenda non emerge alcuna infrazione alle leggi vigenti da parte delle aziende frutticole non-bio della Val Venosta. Si conferma che, anche se non sono fautori del bio, si tratta di frutticoltori seri, dedicati ed esperti che operano nell’ambito delle normative. La mia opinione è che anche in questo caso gli agricoltori finiscono penalizzati (se non addirittura criminalizzati) in un gioco che è più grande di loro e in cui gli attori sono piuttosto la Provincia, gli attivisti no-pesticidi, le autorità europee e in ultima analisi tutti noi consumatori che vogliamo la mela (anzi tutta la frutta e verdura) di Biancaneve, sempre perfetta, in tutte le stagioni e a migliaia di km da dove viene prodotta. Cominciamo con i punti sui quali le posizioni degli attivisti tedeschi meritano considerazione.
Una delle accuse che l’Umweltinstitut solleva è la sostanziale mancanza di corrispondenza tra il messaggio promozionale, anche istituzionale, sulla frutta sudtirolese (in particolare aggettivi come “naturnah”) e la realtà della difesa delle colture che, come in ogni altro distretto frutticolo d’Europa, dipende significativamente dall’utilizzo di pesticidi; cosa puntualmente emersa dai quaderni di campagna esaminati. Da ricordare che il comparto frutticolo sudtirolese è parte integrante del più generale messaggio di “natura” che tanto ha avuto successo nella promozione del “sistema-Südtirol”. Forse serviva un po’ di realismo e prudenza. Spiego perché.
A mio parere, usare termini come “naturale” a proposito di qualunque forma di agricoltura è totalmente improprio. L’agricoltura naturale non esiste per definizione: l’agroecosistema è sempre più o meno artificializzato ed ecologicamente semplificato e dipendente da intervento esterno, sia questo in forma di energia chimica o meccanica. Può esserlo a vari livelli, alcuni meglio di altri, ma non è mai “natura”. Nemmeno un frutteto bio o un pascolo sono naturali. Ma certamente descrivere come “vicina ai ritmi della natura” una monocoltura tridimensionale intensiva come il melo, ad altissima produttività, concentrata su migliaia di ettari contigui e di fatto gestita con criteri di efficienza industriale, rischia di essere autolesionista e si presta – alla prima crepa – ad attacchi. Puntualmente arrivati.

C’è da aggiungere che nella promozione agroalimentare l’utilizzo di definizioni come “naturale”, “sostenibile”, “km zero”, “amico del clima” e altre non è certo un’esclusiva della frutta sudtirolese. Lo fanno tutti, dovunque e disinvoltamente. Guardatevi bene le confezioni dei prossimi prodotti alimentari che comprate. L’utilizzo dei cosiddetti “green claims” (traduciamo con “affermazioni ecologiche” in etichetta o sulle confezioni dei prodotti – e non solo alimentari) ha invaso ormai pervasivamente e talora in maniera poco trasparente noi consumatori al punto che la Commissione Europea sta cercando di mettere ordine alla faccenda. In generale, servirebbe più realismo (o servirebbero più controlli sui messaggi) nel marketing del cibo.
C’è poi un altro punto su cui le osservazioni degli attivisti dell’Umweltinstitut mi hanno fatto riflettere. I metodi di produzione delle mele prevalenti in Alto Adige (di fatto, dovrebbero esserlo in tutta Europa dal 2014, ma sull’attuazione reale in tutti i 27 stati membri ho i miei dubbi) sono quelli della produzione integrata (acronimo: IP). Che dovrebbe integrare metodi chimici, biologici, biomimetici, meccanici, genetici nella produzione del cibo con lo scopo di minimizzare gli effetti indesiderati su ambiente e salute umana. La mia prima esposizione all’IP risale già al lontano 1982, con la mia tesi di laurea. All’epoca, la Facoltà di Agraria a Bologna e la Provincia di Bolzano erano tra i soggetti all’avanguardia in Europa. E ricordo bene che le linee guida del Beratungsring portarono a una diminuzione drastica dei trattamenti contro alcune avversità delle piante. Bene, studiando le linee guida attuali dell’IP per l’Alto Adige (ma garantisco che la cosa è molto più generale) mi domando se le aspettative di allora siano forse state frustrate dalla complessa realtà della produzione agroalimentare. Per cominciare, gli insetticidi “buoni” che allora stavano emergendo (si chiamavano IGR, insect growth regulators) e alimentavano la prospettiva di potere controllare gli insetti dannosi rispettando l’ecosistema sono spariti dalla lista, vittime del loro stesso insuccesso (e di pendenze ecotossicologiche insospettate). In breve, soprattutto nel campo della difesa da insetti dannosi e più ancora da funghi fitopatogeni agenti di malattie come ticchiolatura e oidio, vedo che – a decenni dalla sua nascita – l’IP continua a dipendere significativamente dall’utilizzo della chimica. E l’Umweltinstitut dice che non si fa abbastanza per minimizzarla e punta il dito su situazioni paradossali: i protocolli contemplano anche l’uso di pesticidi con pendenze tossicologiche non risolte (va detto che i dati analizzati rappresentano una fotografia di quello che era usato nel 2017 e nel frattempo svariate di quelle sostanze sono state proibite a livello europeo); i protocolli presentano diverse “pratiche ecologiche” molto interessanti, ma come semplice suggerimento facoltativo e consentono al frutticoltore di adottarne solo una parte. Probabilmente basterebbe renderle tutte obbligatorie (e non mi parrebbe impresa impossibile per i frutticoltori rispettarle; poi ovviamente bisogna vedere sito per sito) per realizzare più compiutamente i principi ispiratori dell’IP.

Più in generale, anche a me (che non sono un attivista) il tutto pare un approccio piuttosto minimalista in una situazione nella quale invece, se voglio qualificare la mia agricoltura come “naturnah” devo anche essere pronto a rivedere non solo le pratiche nei singoli frutteti ma l’intero utilizzo del territorio, per esempio con l’inserzione su scala significativa di elementi di “detossificazione” ambientale quali zone semi-naturali intercalate a quelle agricole, ecc. Diciamo: un paesaggio agrario multifunzionale su scala territoriale. Certo, produrrei meno mele e a costi di produzione più alti. E probabilmente sarebbero mele di varietà diverse da quelle oggi apprezzate dal consumatore. Facile a dirsi, meno a farsi, lo ammetto. Ma la “natura”, se voglio usarla come argomento di vendita, ha un suo prezzo. Detto di quella che secondo me è stata un’imprudenza nella comunicazione sia commerciale che istituzionale del settore frutticolo all’interno della promozione del sistema-Südtirol, passeremo ad esaminare il ruolo dell’Umweltinstitut e quindi degli attivisti no-pesticidi.
(La seconda puntata verrà pubblicata giovedì 15 febbraio)

Mauro Balboni

Immagine di apertura: foto Venti3

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