
Il fenomeno del "terzo uomo" e le allucinazioni in montagna. Intervista a Hermann Brugger
Bolzano. “La solitudine è una forza presente in tutti noi, in ciascuno di noi. Se si sa gestirla nel modo giusto, la si può sfruttare a proprio vantaggio. D’altra parte, è anche una forza che può ucciderci” così scrive Reinhold Messner raccontando la sua salita al Nanga Parbat nel luglio 1978. Chi scala ad alta quota, in condizioni estreme come il “re degli ottomila”, sa bene che spesso i pericoli non provengono solo dall’esterno, ma soprattutto da sé stessi, dai propri fantasmi interiori. In condizioni critiche in alta montagna la mente può infatti produrre delle allucinazioni, che portano a percepire presenze ed entità che in realtà non esistono. Il fenomeno è noto ed è stato descritto come “sindrome del terzo uomo” o, in ambito scientifico, fenomeno switch. Il “terzo uomo” può essere una presenza benefica e consolatoria, ma anche indurre in pericolo e risultare fatale. Parliamo del fenomeno con il professor Hermann Brugger, senior researcher all’Istituto per la medicina d’urgenza in montagna presso l’Eurac di Bolzano, di cui è co-fondatore. In particolare, Brugger è il primo ad aver descritto la psicosi isolata associata all’estrema altitudine in uno studio scientifico insieme a Katharina Hüfner, Direttrice della Clinica Universitaria di Psichiatria II presso la Medizinische Universität di Innsbruck.
“Alcuni alpinisti estremi mi avevano riferito le loro storie di allucinazioni, come il fenomeno del terzo uomo (Dritter-Mann-Phänomen), dicevano di essere stati accompagnati da un uomo, che in realtà non c’era. In particolare, l’alpinista sloveno Iztok Tomazin mi ha raccontato che, scendendo sulla via del ritorno dopo essere salito agli ottomila, aveva cominciato a sentire una voce che gli consigliava di andare dritto invece che seguire il percorso previsto lungo la cresta. Cosa che ha fatto, ma poi gli è sorto un dubbio… appoggiando il piede si è accorto che quella voce lo stava spingendo nel vuoto” racconta Brugger. Lo studio nasce dalla volontà di dare una prima sistematizzazione al tema: “Non c’era nulla nella letteratura scientifica e così con la collega Hüfner, che avevo conosciuto anni prima in un’escursione in Tagikistan, abbiamo iniziato con la raccolta dei dati basandoci sulla letteratura laica. Pur consapevoli di lavorare su una fonte “debole”, abbiamo comunque studiato e raccolto i racconti di 102 casi relativi a 60 persone – diverse delle quali hanno vissuto l’evento più volte nella vita- con una descrizione completa dei sintomi e delle circostanze in cui si sono verificate le allucinazioni” dice Brugger. Sono stati presi in considerazione i casi verificatisi ad un’altitudine minima di 3500 metri.
“Abbiamo ordinato i dati con il supporto di uno statistico, cercando di fare quello che in ambito scientifico si definisce “cluster analysis”, ovvero trovare le similitudini tra i vari casi emersi. Abbiamo quindi individuato tre gruppi: il 51% degli alpinisti e alpiniste non presentavano alcun sintomo psichiatrico evidente; il 22% presentava sintomi che potrebbero portare alla diagnosi di psicosi, ma che sono legati ad altri fattori fisici, come ad esempio la disidratazione, un’infezione, oppure ad un edema cerebrale legato all’HACE (High Altitude Cerebral Edema), cosa che succede a parecchi climbers oltre i 7000 metri. C’è poi il terzo “cluster”, in cui rientrava il 28% dei casi presi in esame. Qui parliamo di psicosi isolata, in cui non interviene nessun elemento trigger (fattore che provoca una reazione, ndr) a causarla e che è quindi associata a forme estreme di alpinismo ad alta quota” precisa Brugger. Ma in cosa si differenzia la psicosi di alta quota rispetto a quella a livello del mare?
“A differenza di una psicosi a livello del mare, i sintomi di quella ad alta quota sono un po’ diversi. Quello più frequente che abbiamo rilevato è, appunto, l’allucinazione: il 60% dei casi mostrava un’allucinazione di tipo acustico, visivo e olfattorio. E la sindrome del terzo uomo è in effetti molto frequente” spiega Brugger.
Ma perché il cervello mette in atto questi meccanismi, che spiegazione si è dato? Non abbiamo chiarezza definitiva sul tema, ma sicuramente l’ipossia gioca un ruolo molto importante – ad una certa altitudine la pressione è molto più bassa, ad esempio all’Everest è solo un terzo del normale, come anche l’ossigeno, e questo è sicuramente il trigger, il fattore numero uno, Ma anche la solitudine, lo stress fisico e psichico contribuiscono molto” . Le presenze e le “voci” possono esser però molto pericolose, come raccontava prima. “Si, ma anche consolatorie, conosco anche casi in cui le voci hanno incoraggiato ad andare avanti, a farcela, nei momenti di difficoltà e di dolore. L’importante è riconoscere la dissociazione perché c’è un rischio concreto di incidente. Chi scala deve averne consapevolezza -la conoscenza del fenomeno è già un passo importante. Il consiglio è di non fidarsi ciecamente delle voci, come ha fatto Istok Thomasin di cui raccontavo prima provando con il piede…”. Naturalmente chi ha sintomi preesistenti con eventi di psicosi o depressione o altri sintomi psichiatrici è più esposto alle allucinazioni ad alta quota.
Ma come si “cura” la psicosi di alta quota? “Come esperto di medicina d’urgenza non ho dovuto trattare persone, anche per il semplice fatto che, quando scendono, non ne soffrono più e non resta nulla” risponde Brugger. Concludiamo con una domanda un po’ ingenua, ma proprio non resistiamo: non è che per caso la leggenda dello Yeti – uomo delle nevi rientra tra le allucinazioni ad alta quota? Brugger scoppia a ridere: “Guardi, me lo sono chiesto anch’io, non lo so…ma lo Yeti viene descritto da molte persone del posto sull’ Himalaya a quote alte, è vero, ma non estreme … la questione è un po’ più complessa”. E altrettanto misteriosa.
Caterina Longo
Immagine in apertura: foto di Charlie Hammond su Unsplash