Giornata della memoria, un anno fa il viaggio ad Auschwitz: il racconto dei ragazzi

Ad un anno di distanza sono ovviamente ancora molti i flash del viaggio ad Auschwitz che ho avuto occasione di fare assieme ai ragazzi di “Promemoria” per documentare la visita del presidente Arno Kompatscher, primo Landeshauptmann a varcare i cancelli del campo di sterminio. Ma a restare impressi saranno soprattutto gli aneddoti raccontati da due ragazze, uno su una disperata preghiera ad Allah e l’altro su una foto ricordo prima scattata e poi cancellata da uno smartphone. Due storie che riassumono il senso di uno dei progetti culturali simbolicamente più importanti che le istituzioni euroregionali abbiano mai deciso di finanziare, dando ogni anno l’opportunità a circa 400 ragazzi della regione Trentino Alto Adige di visitare i campi con una spesa minima. Quest’anno, a causa del Covid-19, la visita sarà invece virtuale. Di seguito un articolo che sarebbe dovuto uscire sulla rivista provinciale LP poi messa in standby per l’emergenza Covid.

I racconti dei ragazzi

E’ sabato 8 febbraio 2020, il “day after”. La lunga visita del giorno prima ai campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau ha lasciato pesanti strascichi. All’Hotel Demel, nella prima periferia di Cracovia, i quaranta ragazzi del gruppo “Bolzano 2” guidato dai tutor Andrea Rizza e Andrea Tommasini stanno facendo “debriefing”. Inizialmente sono chiamati a scrivere degli haiku, associando i colori che rievocano le emozioni a delle immagini che sono rimaste loro impresse.  Poi arriva il momento di “buttare fuori”, parlando a ruota libera. Nessuno si tira indietro. Ad un certo punto prende la parola Diana: “Prima di qualche momento significativo – racconta – scrivo sempre. Mi piace scrivere. Butto giù le mie idee, cerco di definire le aspettative e poi, quando il momento è trascorso mi piace andare a rileggere e vedere come me lo sono vissuto veramente. E magari scrivere di nuovo. Sul pullman verso Auschwitz – ricorda – ascoltavo musica. Ad un certo punto compare il cartello “Auschwitz km 9” e vengo improvvisamente colta dal panico. Spengo. Di chilometro in chilometro divento semplicemente più terrorizzata. La mia famiglia, di origine musulmana, non è molto religiosa. E io non lo sono per niente, non prego mai Allah.  A 3 km la paura è talmente tanta che inizio a pregare. Ma dopo qualche secondo smetto. Cosa sto facendo? mi sono detta, Dio, se esiste, non ha mai varcato i cancelli di Auschwitz, non può averlo fatto, non ha senso che io lo preghi. Finita la visita, durante il rientro in pullman ci chiedono di mettere giù un pensiero o una riflessione. E io che scrivo sempre tutto, per la prima volta sono bloccata, non mi viene neanche una riga. Sono sopraffatta. E´ tutto così troppo grande … ”. La ragazza, la cui famiglia viene dall’Albania, mentre parla tradisce una forte agitazione e una grande fatica a trattenere le lacrime. Ma ogni volta che apre bocca – e lo fa spesso – dice cose estremamente sensate. Si capisce che ha l’urgenza di far uscire quello che il giorno prima non è riuscita a trasferire su un pezzo di carta. Sempre Diana in precedenza aveva esternato tutta la propria indignazione perché prima della partenza un amico di suo padre l’aveva derisa per il viaggio che stava per fare “visto che la metà delle cose che dicono non sono mai successe”. “Non dovrebbero solo venirci tutti gli studenti, ma anche molti adulti”, ha chiosato quindi una sua collega.

Il dibattito che si sviluppa è davvero interessante. Ad un certo punto prende la parola Claudia, ragazza di madrelingua tedesca, come circa un terzo dei componenti del gruppo. La studentessa meranese racconta l’altro aneddoto che ricorderò a lungo e che testimonia il solido lavoro di preparazione fatto dai tutor di Promemoria Auschwitz. “Ci avevano detto – racconta, cercando a fatica le parole – di non fare foto all’interno degli spazi dei campi, e nessuno di noi le ha fatte, o solo alcuni ragazzi che dovevano fare un report per la scuola. Entrare a Auschwitz e poi a Birkenau è stato molto triste, molto emozionante. Io non ho mai pensato di fare una foto. Poi uscendo da Birkenau, c’era il sole, non faceva troppo freddo, e con un nostro gruppo avevamo deciso di fare una foto ricordo tutti assieme. Una foto normale, come una testimonianza del fatto che siamo stati lì. Ma poi ci siamo detti che forse era sbagliato comunque. Ne abbiamo parlato a lungo e alla fine abbiamo deciso di cancellare per sempre quella foto. La testimonianza della nostra visita resta solo dentro di noi, nei nostri occhi.  E’ giusto così”.  Il racconto ha avuto su di me un impatto molto forte per due ragioni. Da un lato la gioia nel poter constatare che ci sono giovani della generazione-selfie capaci di cancellare ogni traccia digitale di un evento molto importante e affidarlo unicamente alla propria memoria. Per nulla banale. Dall’altro la testimonianza ha riaperto le mie personali ferite per le foto scattate il giorno prima. Mentre si camminava in fila indiana nel “campo del sangue”, ogni volta che premevo il pulsante e nel silenzio si sentiva il clic dell’otturatore, a me, che fotografo non sono nemmeno di livello amatoriale, si gelava il sangue nelle vene.

 

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Una bomba emozionale

Riguardando il quaderno pieno di appunti, la frase pronunciata più volte quella mattina durante il “debriefing” all’Hotel Demel è stata: “Tutti dovrebbero venire almeno una volta a visitare questo posto”. E i ragazzi hanno probabilmente ragione. A volte nel visitatore scatta un meccanismo di protezione che fa da scudo e impedisce lì per lì di provare qualunque emozione per poi magari rielaborare tutto a distanza di tempo.  Ma più spesso, nel vedere la scarpetta di un bimbo, il groviglio di occhiali, la montagna di capelli, ad un certo punto, all’interno, da qualche parte, si avverte come un esplosione. Sembra quasi di poter percepire le urla disperate, i silenzi rassegnati, i tonfi dei corpi, gli sguardi compiaciuti dei carnefici di settant’anni fa. E nel montaggio impazzito del film che scorre nella testa si sovrappongono le immagini dei “nostri” genocidi, appaiono le fosse comuni di Srebrenica o i corpi fatti a pezzi con il machete in Rwanda, le migliaia di cadaveri annegati nel Mediterraneo e i volti ghignanti dei carnefici di oggi; ronzano nelle orecchie le frasi serenamente razziste pronunciate da un’anziana in autobus la settimana prima, o le sparate para-naziste scritte sui social media da tranquilli padri di famiglia.

Il momento della deflagrazione l’ho avvertito a circa metà del percorso quando ho realizzato che fino a quel punto il mio cervello, inspiegabilmente, non aveva ancora immagazzinato un’informazione a dir poco cruciale. E cioè che sono circa 1,5 milioni i bambini vittime della Shoah.  Un numero inimmaginabile. A quel punto il cervello e il cuore si sono spenti e ho continuato a camminare come un automa seguendo il fiume di persone, per lo più giovani, incrociando centinaia di sguardi stralunati e impauriti. Ma per uscire dallo stato catatonico, poi, è bastata un’energica “strofinata” su una spalla da parte di un tutor. Una liberazione. Progressivamente la disperazione più cupa ha lasciato il posto ad un’ insolita rabbiosa energia.

Un’esperienza che cambia

Dopo esserci stati più o meno tutti dicono che andare ad Auschwitz è un’esperienza che ti cambia. Non c’è dubbio. Tutt’altro che facile spiegare il perché senza banalizzare. Forse è quell’energia che resta dopo, la chiave. Il desiderio incontenibile di giustizia, di fratellanza e di “bene”. Uscito da lì confidi non solo del fatto che non ti girerai dall’altra parte se vedrai infliggere sofferenza a qualcuno, ma anche che farai il possibile per opporti, per contrastare le ingiustizie che precedono quel gesto. Per esserne sicuro, Kim, 48 anni ma ne dimostra 34, ci torna ogni anno come tutor dal 2009. Nato e cresciuto a Genova, nei primi anni Novanta è “stato adottato dalla comunità punk di Monguelfo”, racconta, e oggi parla un südtirolerisch praticamente perfetto. Kim è una vera istituzione del Progetto Promemoria Auschwitz e non ha intenzione di “smettere”. Ha bisogno di continuare a far circolare ciclicamente “quella” energia.

Organizzazione perfetta

Al di là del viaggio è comunque tutta l’esperienza che è costruita in modo perfetto. Quest’anno la visita sarà virtuale, ma finita la pandemia si tornerà alla normalità. Di solito i ragazzi vengono ammessi in base ad una graduatoria stilata dagli organizzatori analizzando i contenuti delle “lettere motivazionali”. Gli studenti, poi “lavorano” praticamente sempre, anche durante il lungo viaggio notturno in treno dal Brennero a Cracovia. Ogni giorno i gruppi si riuniscono e si tengono dei workshop tematici. E tutti sono chiamati a dire qualcosa, qualunque cosa. Anche la lunga camminata nell’ex Ghetto di Cracovia con la successiva visita allo stupefacente museo Schindler (quello del film di Spielberg, che ha co-finanziato l’opera) sono tappe fondamentali per arricchire il complesso percorso di conoscenza. Davvero ben strutturata l’assemblea finale nell’auditorium dell’Università alla quale partecipano i ragazzi di tutta Italia ed anche i tirolesi (800 in ognuno dei tre treni che vengono organizzati). Ad un certo punto i ragazzi sono chiamati ad uscire dai “banchi” e ad abbracciarsi a caso. Un modo per dire “questa esperienza ci affratella”. Dopo l’ultimo momento di riflessione “serio” diventa quindi ancora più “obbligatoria” la presenza di tutti alla festa finale in un locale del vivace centro storico di Cracovia con danze liberatorie fino all’alba. Una tradizione, questa, che gli organizzatori si augurano di riprendere già dal 2022.

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