Da Philadelphia ad Aica di Fiè, Henry Martin raccontato in una mostra ad ar/ge Kunst

Un puzzle. E una mappa piena di vie, storie e incontri, che portano ad altre vie, storie e incontri. Questo e molto altro è la mostra “Correspondences: about Henry Martin” che la galleria  ar/ge kunst di Bolzano dedica, fino al 4 febbraio prossimo, all’autore, critico, traduttore, curatore -e molto altro- Henry Martin (Philadelphia, 1942 – Aica di Fiè, 2022), recentemente scomparso. È una figura che non si lascia imbrigliare in definizioni univoche, Henry Martin, sfuggevole e affascinante, come i suoi diversi ruoli. Una figura complessa, che il curatore Emanuele Guidi ha saputo tracciare con gesto attento e aprire a livelli di lettura che ne mettono in luce tutta la straordinaria attualità.

È una storia fatta di luoghi quella di Martin, che da Philadelphia arriva in Italia in nave, nel 1965, per lavorare come lettore alla Bocconi di Milano. Ad Aica di Fiè arriva nel 1971, cercando pace per scrivere un libro– e per sciare. Qui conosce quella che sarà la sua compagna di una vita, l’artista Berty Skuber, e qui continua a risiedere, ma sempre rimanendo cittadino del mondo, vivendo al contempo in città come Venezia, Roma, New York, Nizza e Philadelphia. E, come si legge nella presentazione della mostra “abitando una geografia definita dalle relazioni personali e professionali che lo portano ad essere per oltre cinquant’anni, interlocutore privilegiato di molti artisti statunitensi, italiani ed europei, principali protagonisti del Fluxus, Mail Art, Arte Povera e Concettuale.”

Una “geografia di relazioni” che, in mostra, è ricostruita -e sapientemente presentata dall’allestimento di Martino Gamper–  attraverso libri d’artista, opere d’arte, lettere e tracce di vita. Nel suo ruolo “ponte” tra cultura europea e americana, la strada di Henry Martin si incrocia infatti con quella di diverse figure chiave della storia dell’arte del Novecento. Spesso sono storie di relazioni, corrispondenze, amicizie sul filo dell’arte, della poesia, del gioco linguistico.

©ar/ge kunst, Foto Luca Guadagnini, 2022

Diverse tracce raccontano, in mostra, di questi momenti, in cui, come pubblico, è piacevole immergersi e “non smettere di rimbalzare ed essere leggeri“, parafrasando Roland Barthes. “My brother”, così lo definisce il noto storico dell’arte e curatore Arturo Schwarz nella dedica al primo catalogo di Marcel Duchamp, a cui Martin collabora, nel 1970. Pochi anni prima, nel 1967, Martin scrive, con Celant e Tommaso Trini, nel primo libro dedicato a Boetti, pubblicato a Genova; un anno dopo è performer, ad Amalfi, nei panni di Enrico VIII, ne “Lo Zoo” di Michelangelo Pistoletto. E poi c’è lo scambio epistolare, e di oggetti, con Ray Johnson, “padre” della Mail Art. C’è la mostra sugli artisti Fluxus, curata a Museion nel 1992; ma prima ancora c’è il sodalizio con Baruchello, che lo porterà, tra l’altro, ad aderire al progetto romano dell’artista “Agricola Cornelia”, tentativo di risposta alla Land Art americana – e dove nascerà anche il figlio di Skuber e Martin. Aicha e il Sudtirolo rimangono comunque luoghi in cui far ritorno e “far formare il pensiero”, come spiega Martin stesso a Lea Vergine, che lo intervista per Vogue Italia nel 1988. “Questa sua necessità di allontanarsi dalla metropoli anticipa questioni che noi tutti stiamo vivendo”- sottolinea Guidi nella presentazione alla mostra.

Come del resto la sensibilità per le questioni ecologiche e ambientali: non è un caso se sarà proprio Martin il traduttore di Joseph Beuys quando il celebre artista arriva nel maggio del 1984 a Bolognano vicino Pescara per portare avanti il progetto “Difesa della Natura”. In mostra, una foto (l’unica) ricorda quei giorni, con Beuys che pianta un albero, mentre dopo quell’esperienza nasce tra i due un rapporto epistolare.

Ma la straordinaria attualità -e coscienza ecologica- della persona di Martin è racchiusa in una delle opere più delicatamente effimere dell’esposizione, il libro “100 Skies” del 1986, per cui l’artista Geoffrey Hendricks dipinge i cieli sopra New York, mentre Martin scrive i testi guardando i cielo di Aicha e Venezia. Nelle pagine selezionate per l’esposizione -unico intervento autoriale rivendicato da Guidi-  con grande lucidità Martin annota, tra l’altro: “(…) la carenza di risorse è ora una crudeltà umana rispetto ad altri esseri umani, piuttosto che una condizione di inadeguatezza umana rispetto alla forza della natura. Ora siamo noi la forza su cui dobbiamo ottenere il controllo, se vogliamo che la vita su questo pianeta fiorisca o addirittura continui. Il meteorite che potrebbe aver colpito la terra e spazzato via i dinosauri sembra una piccola patata in confronto a ciò che gli uomini potrebbero fare a se stessi.”*

E più avanti, Martin, che era sempre stato un “orecchio attivo“, interlocutore privilegiato per tanti artisti, riferendosi al libro di Paul Bowles, “The Shelterin Sky”, scrive: “Il cielo è come se fosse un guscio che abbiamo costruito intorno al mondo pieno di luce per proteggerci dall’emozione dell’infinito. Il cielo media. Parla di un grande aldilà e ci protegge dalla paura di quel grande aldilà”.**

Caterina Longo

 

*(…) shortage of resources is now a human cruently with respect to other human beings rather then a condition of human inadequacy in the force of nature. We now are the force over which we have to gain control if life on this planet is to floursih or even to continue. The meteorite that may have struck the earth and wiped out the dinosaurs seems rahter small potatoes in comparison to what men could now do to themselves. I have no idea quite how this connects in any logical way to Geoffrey’s work, but I am touched by his choosing to deal with nature ai its most ethereal. The air, the clouds, and the rain are something that as yet we do not control.

** The sky is as thought a shell we have constructed around the light-filled world to prodect us from the emotion of infinity. The sky mediates. It talks about a great beyond and yet protects us from the fear of that great beyond

Immagine in apertura: Henry Martin con Gianfranco Baruchello. Foto by Berty Skuber

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