Da Colonia a Bolzano: intervista a Leonie Radine, curatrice di Museion

“Dalla finestra di casa mia a Colonia non vedevo nemmeno un albero, qui ho una magnifica vista sulle montagne, sei continuamente in relazione con qualcosa di più grande, che cambia lo sguardo sul mondo” ci racconta Leonie Radine, che poco più di un anno fa ha lasciato il Museo Ludwig di Colonia per assumere l’incarico di curatrice a Museion. Le abbiamo chiesto di parlarci dei suoi progetti dopo questi primi mesi in Alto Adige. “Mi trovo molto bene, sono stata accolta dal team con grande calore e trovo che Bolzano sia un luogo ideale per l’arte contemporanea” ci ha raccontato. A portarla a Bolzano l’entusiasmo per Museion e per la visione del direttore Bart van der Heide: “seguivo da tempo il programma di Museion, poi sono stata qui nell’estate 2021 e sono rimasta molto colpita dal nuovo orientamento e dal programma, che vede il museo come più della somma delle singole mostre: un museo giovane che emana una forte energia”. Per Radine si tratta, in un certo senso, di un ritorno in Italia, poiché aveva seguito, come assistente curatoriale, il progetto di Maria Eichhorn al Padiglione tedesco della scorsa Biennale di Venezia 2022.

 

Plot e la grande distesa di terra

La prima mostra curata da Radine a Museion è invece “Plot” dell’artista statunitense Asad Raza (1974, Buffalo, New York). Anche se parlare di mostra è riduttivo: quello di Raza è un progetto in fieri, strutturato in capitoli, in cui l’arte dialoga con la scienza, l’architettura e la danza. Ricerche, incontri, azioni e nuove opere si generano da un vero e proprio terreno: un’enorme installazione chiamata “Absorption” che occupa l’intero secondo piano di Museion con 60 tonnellate di “neosoil” (terriccio) artificiale. La terra è stata realizzata mettendo insieme “materiali locali e prodotti di scarto, tra cui argilla, vinacce, polvere di marmo, fondi di caffè, cenere di forni per la pizza, capelli e molto altro. Questi materiali saranno mescolati, smossi e continuamente aggiunti da un gruppo di coltivatori, che offriranno ai visitatori del terriccio fertile da portare a casa per progetti e coltivazioni privati” spiega il comunicato sul progetto.

Asad Raza, “Plot”, exhibition view, Museion Bolzano. Foto Luca Guadagnini 

Raza non è nuovo a progetti spiazzanti: per rimanere in Italia, nel 2017 aveva trasformato gli interni della chiesa di San Paolo (sede dello spazio Converso) in un campo da tennis, mentre “nel 2022 ha portato l’acqua del fiume Meno dentro gli spazi della Galleria Portikus di Francoforte, “un progetto che mi ha molto colpito”, sottolinea Radine.
Tornando a Museion, immaginiamo la sorpresa del pubblico davanti alla grande distesa di terra di Plot… “ma le sorprese sono positive! C’è un confronto molto forte con il progetto” sorride Radine, quando le chiediamo come stia reagendo il pubblico.
Chi non è addentro potrebbe banalmente obiettare che di terreni coltivati ce ne sono molti in Alto Adige, e non occorre entrare in un museo per farne l’esperienza. Ma Radine non si scoraggia e continua “quello proposto dal progetto è un confronto poetico, che coinvolge tutti i sensi. È interessante perché è la traduzione di processi che avvengono fuori dal museo, che il museo stesso rende comprensibili ed esperibili. Il biosol utilizzato è composto da ‘ingredienti’ che provengono da tutto il territorio e così ne costituiscono un ritratto, un terreno di coltura e cultura al contempo (kulturelles Erbe und kulturelle Erde). Ho imparato molto, anche dal dialogo con i coltivatori; il terreno è qualcosa di sostanziale per noi, il 95% del nostro cibo proviene dalla terra”. Un approccio artistico allargato e interdisciplinare insomma. “Raza ha una visione dell’arte come metabolismo ed esperienza; lo scambio è fondamentale, e anche per questo progetto ha coinvolto l’architettura e la danza” dice Radine.

Asad Raza, “Plot”, exhibition view. La struttura creata da Fabrizio Ballabio e Alessandro Bava insieme a Lydia Ourahmane. Foto Luca Guadagnini

Dalla distesa di terriccio sono stati infatti creati dei mattoni di fango che gli architetti BB (Fabrizio Ballabio, Alessandro Bava) hanno utilizzato, insieme all’artista Lydia Ourahmane, per indagare il concetto di abitazione. Ne è nato il prototipo di una piccola struttura che fa riferimento a diversi spazi chiusi, dai bivacchi alpini ai santuari o “sacelli” del Rinascimento, o ancora ai rifugi del deserto algerino. “Questa graduale e successiva costruzione di cultura come processo di scambio sfocia ora nel capitolo 3 con la performance di danza (di Moriah Evans, in collaborazione con Bolzano Danza, il 27 e 28 luglio). Quello che rimarrà in futuro è l’esperienza” continua Radine. Insomma, un progetto molto concettuale e intangibile? Radine sorride ancora “Intangibile, ma anche così tangibile allo stesso tempo. Alla conferenza stampa di presentazione si sentiva forte l’odore dei semi di cacao, ma non solo: il terriccio cambia l’acustica dello spazio, percepisci come i suoni sono diversi perché la terra li assorbe … ti porta ad essere presente nel momento, ora ed adesso. È un lavoro che tocca tutti i sensi.

 

Progetti futuri che fanno ben sperare

Insomma, la curatrice sembra avere una passione per i progetti “spiazzanti”; saranno così anche le prossime mostre che curerà?  “Mi interessa tematizzare i confini a livello spaziale e concettuale, ad esempio a Colonia ho curato la mostra “Hausbesuch“, che ha coinvolto gli spazi abitativi della città con il collettivo Ballabio e Bava e altri artisti; al museo Ludwig ho utilizzato lo spazio del foyer per  tematizzare il confronto tra interno ed esterno, mi interessano lo scambio e l’interazione anche al di fuori del museo, con la società. Il prossimo progetto a cui lavora Radine è Hope, la mostra che invaderà l’intero Museion (il 30 settembre), come terzo capitolo del programma triennale “Techno Humanities”. “Curo il progetto insieme al direttore Bart van der Heide e a DeForrest Brown, Jr., musicista curatore, che ha riscritto la storia della techno …rifletteremo sulla potenza dell’immaginazione e di come l’arte, il linguaggio e la science fiction possano offrire appunto spazi dell’immaginazione e della creazione di mondi. La speranza ha a che fare con il futuro, ma non solo, è legata anche al passato, si tratta di riscrivere nuove storie attraverso i futuri possibili, che noi proiettiamo. Avremo opere di artisti e artiste di diverse generazioni. A proposito di Hope, Radine sembra una persona molto positiva e ottimista, “si, è importante essere positivi ma non è la soluzione, piuttosto bisognerebbe riattivare la speranza come pratica critica”.
Ultima domanda: piatto preferito della cucina sudtirolese? “gli Schlutzkrapfen. Ma senza pasta non potrei vivere”.

 

Leonie Radine ha studiato storia dell’arte a Marburgo e Berlino. Ha lavorato presso il KW Institute for Contemporary Art di Berlino come assistente curatoriale di Susanne Pfeffer e, dal 2015 al 2022, al Museum Ludwig di Colonia, dove ha curato diverse mostre e ha collaborato con Yilmaz Dziewior alle retrospettive di Haegue Yang e Wade Guyton. Come assistente alla curatela, è stata responsabile del contributo di Maria Eichhorn al Padiglione tedesco della 59a Biennale di Venezia.

Caterina Longo

Immagine in apertura: Leonie Radine, foto courtesy Museion

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