Brennero, Kufstein e San Candido: quando i confini diventano simboli (e quando no)

Sono le 20 del 30 ottobre 2021 quando il bus diretto a Monaco viene fermato alla frontiera austro-germanica di Kufstein. L’autista abbassa il finestrino e la guarda di frontiera gli chiede se parla tedesco, risponde di no, che è italiano. L’agente riprova con l’inglese: «Do you speak english?». «Poco, poco» risponde, in italiano, l’autista. Ecco, le speranze di arrivare in orario a Monaco incominciano a svanire proprio in quei pochi secondi e crollano inesorabilmente alla domanda successiva sul numero di passeggeri a bordo.

L’autista di turno alla guida risponde «trentasette» in italiano, il suo sostituto «thirtysix» (36) in inglese. I gesti successivi sono inequivocabili, il bus deve parcheggiare a lato della strada mentre veniamo tutti invitati a scendere e a disporci su due file parallele. Una volta scesi, chi prova a spostarsi per avvicinarsi al compagno di viaggio viene invitato a non muoversi, io mi ritrovo di fronte a un agente con un mitra a tracolla.

Quando tutti siamo ordinatamente disposti, incomincia il controllo dei documenti e del green pass. E’ buio, una torcia viene prima puntata sui documenti, poi sul viso dei passeggeri che vengono invitati a togliersi la mascherina per l’identificazione. Chi supera il controllo può salire sul bus. Risaliamo tutti a bordo, anzi, quasi tutti, un passeggero viene trattenuto e restiamo per circa mezzora ad attenderlo. Una passeggera scende insieme all’autista per provare a chiedere spiegazioni, poco dopo rientrano con il passeggero mancante, a quanto pare era stata riscontrato un procedimento amministrativo nei suoi confronti, probabilmente una multa non pagata.

Ripartiamo e arriviamo a Monaco con una mezz’ora di ritardo, poco male, per me era solo una tappa intermedia per recarmi, il giorno successivo, nell’Ostbelgien, il territorio dove abita la comunità di lingua tedesca del Belgio Se ne parlerà più avanti, perché il controllo di Kufstein merita qualche riga in più perché aiuta a comprendere meglio cosa sono oggi l’Europa e l’Alto Adige che, è fin banale ricordarlo, è innanzitutto un territorio di frontiera.

I confini

Nell’estate appena trascorsa, ho attraversato una dozzina di frontiere di otto paesi diversi, ma i documenti me li hanno controllati solo a Kufstein, nel modo appena descritto, e in treno a Buchs tra Svizzera e Austria (Liechtenstein a essere più precisi). Nell’occasione le forze dell’ordine elvetiche si erano dilungate a osservare la mia carta d’identità, leggermente deteriorata, con una lente d’ingrandimento. In tutti gli altri casi, nessun controllo di nessun tipo, probabilmente perché ho quasi sempre attraversato i confini in luoghi non “simbolici” con mezzi pubblici utilizzati da chi abita nei pressi delle frontiere.  Sono passato dalla Svizzera alla Germania su un tram, dalla Germania al Belgio e dall’Olanda alla Germania su un bus urbano e dalla Germania alla Francia, dal Belgio all’Olanda e dall’Italia alla Slovenia a piedi..

Una serie di attraversamenti che ha confermato l’idea che mi ero già fatto dopo la crisi dei profughi del 2018 al Brennero. I confini vengono controllati soprattutto a scopo propagandistico. Non dimenticherò mai la bambina africana in lacrime che veniva fatta a scendere dall’Eurocity per Monaco alla stazione del Brennero. Una poliziotta tedesca, inflessibile, aveva costretto lei e la madre a scendere dal treno senza nessuna compassione. Nel frattempo un collega italiano e uno austriaco facevano scendere altri “clandestini” quasi tutti provenienti dal Corno d’Africa. Mezz’ora dopo, la stessa bambina saliva su un interregionale diretto a Kufstein senza nessunissimo controllo e con lei tutti gli altri che erano stati buttati fuori dall’Eurocity. D’altra parte, le nazioni si costruiscono attorno ad un immaginario comune fondato, innanzitutto, su confini, quelli che si spacciano per naturali o per sacri, ma che sono e sempre saranno, luoghi di passaggio su cui sono state tracciate delle linee in maniera più o meno arbitraria.

A differenziarli è il loro valore simbolico, al Brennero e a Kufstein vanno mostrati i muscoli quando lo si ritiene utile, ad Aachen o a San Candido si passa da un paese all’altro senza accorgersene. Ma è proprio là dove i confini sono ormai un ricordo, un luogo da souvenir e selfie, che il nazionalismo mostra i suoi simboli senza ipocrisie. Le bandiere sventolano quasi esclusivamente sopra i sacrari, facendo ombra a centinaia di tombe di militari caduti su entrambi i fronti per stabilire dei “sacri” confini ora invisibili. Nell’estate del 2020 ero andato a buttare un occhio al confine tra San Candido e Sillian, un luogo che ha poco o nulla a spartire con il Brennero, nessun controllo di polizia, essenzialmente il luogo di partenza di una frequentatissima ciclabile.

San Candido

Dotato di bicicletta di ordinanza mi ero diretto verso il confine austriaco e non appena uscito dall’abitato di San Candido, mi ero trovato al cospetto del sacrario militare della prima guerra mondiale progettato nel 1939 dall’architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni. Costruito come un fortilizio romano circolare a due piani ospita 218 caduti italiani, quattordici dei quali ignoti, e dieci caduti austro-ungarici, provenienti dai cimiteri militari di Bressanone e San Zeno di Montagna. E’ uno dei tre ossari costruiti in Alto Adige nel 1939, insieme a quello di Burgusio e di Colle Isarco. Il fascismo li pensava come inni all’eroismo, oggi sono efficacissimi messaggi a favore della pace. Ma quello appena descritto, non è l’unico cimitero militare della zona. A pochi chilometri di distanza dal sacrario di Greppi, sorge il cimitero di guerra dei caduti austroungarici, il “Soldatenfriedhof Innichen” collocato in un contesto molto diverso. Se l’ossario “italiano” è ai lati della strada che porta a Lienz, ben visibile anche grazie alle vistose bandiere mosse dal vento, quello degli austroungarici è nascosto dal bosco sulle pendici di un monte a sud della cittadina.


La difformità tra un sacrario “celebrativo” e un piccolo cimitero che ospita tombe sparse in mezzo al bosco non necessita di troppe spiegazioni, ma va precisato che le differenze stanno anche e soprattutto nel periodo storico in cui sono stati creati. Questo secondo cimitero era stato costruito nel 1916 per ospitare il considerevole numero di caduti proveniente dai due ospedali di guerra che sorgevano nelle vicinanze. Ospitava le tombe degli Standschützen, ma anche quelle di prigionieri italiani, russi e serbi, ma già nel 1934. le vittime italiane vennero trasferite al sacrario militare di Pocol. Nel 1941 toccò agli altri che vennero trasportati verso i cimiteri di guerra di Bressanone, di Bolzano o presso il cimitero militare tedesco del Passo Pordoi. Dopo altri trasferimenti, il piccolo cimitero fu abbandonato a sé stesso e solo nel 2004 è stato recuperato trasformandolo in un luogo destinato alla riflessione e al silenzio.

Proprio su quelle panchine, ammirando il panorama “sconfinato” della Val Pusteria ho incominciato a immaginare quel viaggio lungo le frontiere europee che ho compiuto la scorsa estate. La meta finale non poteva che essere il Moresnet, piccola porzione dell’Ostbelgien la cui storia è stata mirabilmente raccontata da Philip Dröge in “Terra di nessuno” (edizioni Keller). Un’area di 3,4 kmq che i tracciatori di confini non sapevano dove collocare e che, per un secolo, ha mostrato al mondo quanto i confini, quelle righe tirate sul territorio dopo qualche guerra, siano sempre arbitrarie.

(segue)

di Massimiliano Boschi

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