Un anno in lockdown, in attesa che i nodi vengano al pettine

Tredici mesi di pandemia, a un anno dal primo lockdown: 1100 morti in Alto Adige, 104.000 in Italia, oltre mezzo milione nell’Unione Europea (post Brexit), 126.000 in Gran Bretagna. L’unica immunità di gregge che abbiamo raggiunto è quella legata ai numeri, ai dati, alle statistiche. Fuori da questi, è difficile non pensare che, almeno dal punto di vista psicologico, questo sia il mese peggiore da un anno a questa parte, soprattutto in Alto Adige. Due giorni fa, il 18 marzo 2021, prima giornata nazionale dedicata alle vittime della pandemia, ho passeggiato in un centro di Bolzano discretamente affollato, decine di persone camminavano in un pesantissimo silenzio interrotto solo dalle grida di qualche bambino. Un’immagine molto più triste delle strade desolatamente vuote del primo lockdown, quelle in cui il silenzio era rotto solo dagli annunci delle auto della protezione civile. Ma quel primo lockdown era considerato eccezionale, figlio di un’emergenza, quest’ultimo che in Alto Adige dura ormai dall’8 febbraio, ci ha assuefatti, sembriamo esserci rassegnati. Una dolorosa constatazione che, però, non tiene conto di quel che sarebbe potuto avvenire.

Perché solo tredici mesi fa, a febbraio del 2020, nessuno avrebbe potuto immaginare che ci saremmo potuti abituare a condizioni di vita simili, tutti avremmo pensato che sarebbe scoppiata una “rivoluzione”, il futuro che ci attendeva era completamente inimmaginabile. Invece siamo passati dagli scaldacollo alle mascherine ffp2 con una discreta nonchalance e siamo passati dall’invidiare i padroni di cani che potevano passeggiare in spazi più ampi e tempi più dilatati, a una quotidianità “canina”. Ci “portiamo fuori” per camminare senza meta come fossimo quadrupedi che hanno bisogno di espletare un bisogno fisiologico.  Sono cambiati anche i capri espiatori: dai cinesi siamo passati prima ai runner poi ai giovani della movida fino a concentrarci sui nasi lasciati scoperti dalle mascherine. I “politici” erano e restano una costante, sono i rischi del mestiere.  In Alto Adige hanno fatto di tutto per rovinare quella riserva di fiducia che era stata accumulata negli anni precedenti, ma in fondo, cosa è successo?

Un paio di manifestazioni etichettate come “no vax” soprattutto da una parte politica che ha utilizzato il medesimo schema che l’altra parte utilizzava nelle manifestazioni “no-global”: pars pro toto, con i no vax a sostituire i black bloc. Poca o nessuna comprensione per chi vive da mesi una situazione economica e sociale durissima, quelli che vedono qualche euro grazie alla cassa integrazione o a qualche tipo di bonus, mentre convivono in case in affitto (carissime) con figli che non possono andare a scuola.  Ansie e paure che sfociano in un naturale nervosismo che non si sa come e dove sfogare. Per fortuna ci sono le “valvole” dei social che, però, stanno alla vita come il porno sta al sesso: esagerazioni e ossessioni monotematiche.

I simboli e il futuro

Conosco persone che negli ultimi sei mesi hanno perso genitori e nonni senza poterli salutare degnamente, dilaniati dai sensi di colpa per averli abbandonati. Eppure, il mio personalissimo simbolo di quest’anno di pandemia, è lo sguardo della barista di un locale che frequentavo spesso. L’ho incrociata per caso, entrambi con la mascherina ci siamo riconosciuti all’ultimo momento. Indeciso se fermarmi, le ho buttato lì un “come va?”. Nel rispondere con la mia stessa domanda le si è velato lo sguardo e si è lasciata andare a uno sfogo durato meno di venti secondi. “Non lavoro da un anno, sono costretta in casa con due figli, fortunatamente mio marito ha ripreso a guadagnare qualcosa ma…”. Poi è scappata via mormorando un “Che senso ha? Che riaprano e basta, tanto ormai“. Erano lacrime di rabbia, frustrazione e vergogna, perché io e lei non siamo così in confidenza, ma non è riuscita a controllarsi, perché, banalmente, non ce la fa più.

La considero un’immagine simbolica perché racchiude quel che l’ha travolta in quest’ultimo anno, ma anche perché annuncia quel che dovremo aspettarci. Se e quando questa “emergenza pandemica” finirà, la realtà smetterà di essere ovattata dal silenzio e dall’isolamento, i nodi verranno al pettine, le mascherine smetteranno (anche) di imbavagliare e ci troveremo ad affrontare la realtà fuori dalle mura domestiche. Una realtà di cui al momento sappiamo e vogliamo sapere pochissimo, presi da qualunque intrattenimento che ci impedisca di vedere come siamo ridotti. Difficile pensare a soluzioni per problemi che ancora non percepiamo, non resta che puntare sul solito ottimismo della volontà pronto a combattere il pessimismo della ragione.

Massimiliano Boschi

di Massimiliano Boschi

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