I risultati delle elezioni regionali e l'agonia della politica

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Elezioni regionali 2025. Il 23 e 24 novembre si sono tenute le elezioni regionali in tre regioni: Campania, Puglia e Veneto che complessivamente hanno riguardato un quarto della popolazione italiana. In nessuna delle tre regioni l’affluenza ha superato il 50% (44,10% in Campania, 41,8% in Puglia, 49% in Veneto) e in tutte e tre le regioni ha stravinto il candidato in continuità con l’amministrazione precedente. In Campania ha vinto Roberto Fico (centrosinistra) con il 60,6%, in Puglia Antonio Decaro (centro sinistra) con il 64%, in Veneto Alberto Stefani (centrodestra) con il 64,4%.
Una continuità che non riguarda solo l’amministrazione appena precedente, perchè in Campania governa il centro sinistra da dieci anni e in Puglia da venti. Il centrodestra amministra il Veneto da trenta.
Tutti e tre i candidati vincitori delle elezioni di novembre 2025 si ritrovavano a ereditare la carica da personalità di peso che governavano la propria regione da almeno dieci anni: De Luca in Campania, Emiliano in Puglia e Zaia in Veneto, e per questo sono stati scelti con grande cura, e molte polemiche, nelle segreterie dei partiti.
Si dirà che anche nella prima Repubblica i candidati si selezionavano nelle segreterie, ma ai tempi i partiti esistevano, erano rappresentativi della società, non lo erano solo “virtualmente” come oggi. Avevano sezioni, tenevano congressi e potevano contare su centinaia di migliaia di iscritti. Oggi, i partiti sono ridotti a poco più di raggruppamenti che si riuniscono attorno a un leader, ma invece di diminuire, crescono. Fico in Campania era sostenuto da otto partiti diversi, Decaro da sei e Stefani da sei. Coalizioni di partiti sempre più affollate e urne sempre più deserte. Simbolo emblematico della politica italiana nel 2025.

Non solo per questo, valutare politicamente i risultati elettorali di questo fine novembre risulta complicato. Le Regioni hanno competenze ridotte: la Sanità innanzitutto e parte del trasporto pubblico, due temi caldi su cui gli italiani non sembrano esprimersi in maniera particolarmente positiva, anzi.
Le sacrosante lamentele relative alle liste d’attesa per le visite mediche, i ripetuti scandali di “malasanità”, i ritardi e l’affollamento dei treni regionali, farebbero ipotizzare una forte richiesta di cambiamento e, invece, in tutte e tre le regioni vengono confermate con numeri altissimi le coalizioni che governano dai 10 ai 30 anni.
Inevitabilmente, quindi, i risultati delle elezioni in Veneto, Puglia e Campania – ma lo stesso discorso potrebbe valere per Lombardia, Emilia Romagna e Toscana, dove governano da decenni le stesse parti politiche – sono un chiaro invito all’astensione da parte di chi vorrebbe che le cose cambiassero.
Le elezioni sembrano sempre più ridotte a un “censimento” delle identità politiche dei cittadini. Sono, infatti, gli elettori più schierati, quelli che ancora si identificano con la destra o la sinistra a recarsi al voto, gli altri, sconsolati, restano a casa, delusi o arrabbiati nell’osservare che non solo non migliorano i servizi sanitari o il trasporto pubblico, ma che i temi su cui l’opinione pubblica si polarizza, si divide e si scontra, non hanno quasi mai a che fare con la realtà che li circonda.
I social sono uno specchio deforme della società, ma decisamente il più visibile e narrato. Così si finisce per confrontarsi e dividersi sulle famiglie che vivono nei boschi, sul sentimento nazionale dei tennisti o sul sesso delle pugili algerine. Tutti temi che non incidono minimamente sulla quotidianità dei cittadini.
Da questo punto di vista, i dibattiti politici televisivi sono da anni, forse da decenni, uno dei segnali più evidenti dell’agonia in cui versa la politica italiana. Dal confronto tra i leader politici dei diversi schieramenti  – o dei direttori di quotidiani sempre meno letti, che sempre più spesso sostituiscono i politici di professione – non emergono mai possibili soluzioni ai problemi della collettività. Si ripetono identici e sconfortanti scontri verbali in cui ognuno rivendica le proprie parole d’ordine identitarie e ripete ritornelli sempre più stonati. Terminata la “rappresentazione”, ognuno torna ai propri affari mentre gli spettatori, sempre meno per altro, si godono la finta rissa per poi passare a un quiz o un reality.
In un contesto simile, con le speranze per un futuro migliore ridotte al lumicino, inevitabilmente trovano spazio le idee e le personalità più estremiste.
La corsa al centro per guadagnarsi il voto moderato è ormai scomparsa, si preferisce la corsa verso gli estremi, verso chi la spara sempre più grossa con proposte sempre più irrealizzabili, sempre più lontane dal sentimento democratico.
Una spirale, un circolo vizioso che allontana dalle urne un numero sempre maggiore di cittadini e cittadine, lasciando vaste praterie a chi vede la politica come una sfida tra tifosi: dal “due a uno” per il centrosinistra nelle elezioni regionali di novembre, al “tre a tre” complessivo dell’intero 2025, mentre in campagna elettorale si salta al grido di “chi non salta è comunista”. Ma i tifosi quanto influiscono sul risultato della partita?

Massimiliano Boschi

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