"Violent Images": rallentare davanti alle immagini violente. Intervista alla co-curatrice Eva Leitolf

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Bolzano. Che cosa rende un’immagine violenta? Chi lo decide, e in quale contesto? In che modo le tecnologie di produzione e i canali di distribuzione influenzano il rapporto tra immagine e (l’esercizio della) violenza? Questi alcuni interrogativi posti dalla mostra “Violent Images” ospitata da Foto Forum a Bolzano (fino all’8 novembre prossimo) e da una pubblicazione che la affianca (Violent Images, Nero Editions, 2025). Al contrario di quello che ci si aspetterebbe sia mostra che libro, entrambi curati da Eva Leitolf e da Giulia Cordin della Facoltà di Design e Arti di unibz, affrontano il tema della rappresentazione della violenza in maniera sottile e non spettacolare. Costringono a pause, inciampi e riflessioni per svelare come non sia solo il contenuto delle immagini, il cosa ad essere potenzialmente violento, ma anche il come, le modalità con cui le immagini vengono prodotte, diffuse, guardate e fruite oggi. Ne abbiamo parlato con Eva Leitolf, che all’immagine dedica le sue ricerche, sia nel suo insegnamento come professoressa e direttrice di Studio Image (uno dei quattro studio del curriculum arte a unibz) che come artista – i suoi lavori sono esposti a Foto Forum insieme a quelli di Broomberg & Chanarin, Letizia Nicolini, Sophia Rabbiosi, Viola Silvi. 

Nelle sue opere Postcards from Europe, presentate a Foto Fourm, indaga i modi in cui l’Unione Europea gestisce i suoi confini esterni e i conflitti ad essi associati, mettendo in relazione le fotografie dei luoghi con testi sugli eventi che li sono accaduti. Le fotografie mi hanno molto colpito perché sembrano asciutte, neutrali, quasi a voler disinnescare la drammaticità delle storie, anche tragiche, che certi luoghi racchiudono… Perché questa scelta?

Nel mio lavoro non mi interessa produrre immagini spettacolari o sfruttare visivamente eventi drammatici. Piuttosto, mi interessa capire come i conflitti sociali – come la migrazione, i regimi di confine o l’emarginazione – si inscrivano nelle immagini e nei testi, come lascino tracce che a un primo sguardo possono sembrare insignificanti, ma che a uno sguardo più attento raccontano molto. Credo che questa ritenzione, questa misura, sia una forma di responsabilità. Quando fotografo luoghi in cui è avvenuta della violenza, che si tratti di violenza fisica, strutturale o simbolica cerco di trovare una forma che ponga domande, che ammetta ambiguità, che renda visibili i vuoti. L’impostazione di Postcards from Europe – sia nella mostra che nelle pubblicazioni – segue esattamente questa idea.

Violent Images – Eva Leitolf, PfE0017-ES-030106 Ladders, Melilla 2006, Exhibition by Foto Forum, Bolzano/Bozen (Italy), 2025

Un approccio che è l’opposto di quello che “funziona” sui social dove tutto deve essere immediato.

In un certo senso, è davvero una contro-mossa rispetto alle logiche dei social media, dove le immagini vengono prodotte e consumate per ottenere il massimo impatto. Lì conta ciò che colpisce subito, ciò che emoziona, ciò che si condivide facilmente. Il mio lavoro, invece, invita a rallentare: non vuole convincere, ma spiazzare; non vuole spiegare, ma aprire.

A proposito, nell’introduzione al volume “Violent Images” mi ha colpito una frase : “le immagini diventano politiche proprio quando resistono alla leggibilità e alla visibilità immediate, evitando così il rischio di spettacolarizzare, la sofferenza e l’emarginazione”

Sì, questo è un concetto centrale, perché descrive un atteggiamento che cerco di formulare costantemente nelle mie ricerche: le immagini non diventano automaticamente politiche solo perché mostrano violenza o sofferenza. Al contrario – proprio nella rappresentazione diretta e spettacolare si nasconde spesso il rischio che ciò che viene mostrato diventi consumabile, assimilato e reso estetico. Questo può portare al risultato opposto rispetto all’intento iniziale – per esempio, voler richiamare l’attenzione su ingiustizie o forme di esclusione – perché i soggetti ritratti vengono nuovamente esposti, nuovamente trasformati in oggetti, mentre le condizioni strutturali della violenza rimangono per lo più taciute.

Eva Leitolf e Giulia Cordin, foto Fanni Fazekas

Sia le opere in mostra che la pubblicazione “costringono” il pubblico a rallentare.

In un’epoca in cui siamo esposti ogni giorno a migliaia di immagini, credo sia importante fermarsi, osservare davvero, riflettere e mettere in discussione ciò che vediamo. Il nostro libro “Violent Images” cerca di fare proprio questo, per esempio rivelando le immagini solo a un secondo sguardo: chi guarda deve aprire con cautela delle pagine piegate per passare dalla parte testuale a quella visiva. L’intento era quello di creare spazi in cui chi osserva non “capisce” subito, ma deve entrare in relazione con ciò che vede, chiedersi che cosa stia guardando – e che cosa forse non dovrebbe o non può vedere.

Un modo per far riflettere su quanto il potenziale di aggressione non risieda solo nel contenuto delle immagini…

Se il contenuto di un’immagine è certamente il punto di partenza più evidente per riflettere sulla violenza delle immagini è possibile fare un passo oltre e considerare il loro peso epistemico. Le immagini possono essere violente anche perché minano la nostra capacità di comprendere, negoziare e valutare la complessità della realtà. Le immagini raccontano storie: su ciò che è socialmente accettabile o meno, su chi appartiene e chi resta escluso. Un’immagine è anche un mezzo attivo, capace di agire: attraverso la sua contestualizzazione, le modalità di circolazione e ricezione, essa attiva e anestetizza, interessa e distrae, rivela e nasconde.

Violent Images – Broomberg & Chanarin, Chopped Liver Press, 2019, Exhibition by Foto Forum, Bolzano/Bozen (Italy), 2025. 
Foto Fanni Fazekas

In questo contesto di “immagini violente” come si inseriscono le immagini artistiche?

Vedo un grande potenziale nel confronto artistico con le immagini. Creando immagini che disturbano, contraddicono o aprono nuove prospettive, possiamo opporci ai flussi visivi dominanti. Possiamo creare spazi in cui non si tratta solo di consumare, ma anche di discutere, interpretare e negoziare il senso delle immagini.

E noi, davanti al flusso di immagini dai nostri smartphone, come possiamo difenderci e affrontare questo potenziale di violenza di cui parla?

Credo che servano nuove forme di competenza visiva, una sorta di alfabetizzazione o maturità dello sguardo. Dobbiamo imparare non solo a guardare le immagini, ma a leggerle: chiederci chi le ha create, in quale contesto, che cosa mostrano – e che cosa rimane invisibile. Quali interessi ci sono dietro? Allo stesso tempo, si tratta anche di responsabilità individuale e collettiva.

Anche quando scattiamo e condividiamo una fotografia, quindi.

Dobbiamo essere consapevoli del nostro ruolo e assumerci la responsabilità – per ciò che mostriamo, per il modo in cui lo mostriamo e per come lo guardiamo.  Come giornalista o social media manager devo interrogarmi su quali narrazioni sto contribuendo a sostenere con ciò che pubblico.

Caterina Longo

Immagine in apertura: Violent Images – Letizia Nicolini, Unmarked (11.09.2024), 2025, Exhibition by Foto Forum, Bolzano/Bozen (Italy)

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