PlantVoice, “la voce delle piante” per l’agricoltura di precisione - l'intervista a Matteo Beccatelli

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Innovazione. Ascoltare le piante, per capire ciò di cui hanno bisogno. Da questa premessa nasce PlantVoice, realtà altoatesina che “ascolta” le esigenze delle colture, traducendo in informazioni utili all’agricoltore per bilanciare correttamente crescita e utilizzo di risorse. Alla guida c’è Matteo Beccatelli, chimico con un passato nella sensoristica, che insieme al fratello Tommaso Beccatelli e Pierluigi Lodi Rizzini ha trasformato un’idea semplice in una tecnologia concreta: un micro-innesto nel fusto che legge i segnali bioelettrici – una sorta di “elettrocardiogramma” della pianta – e li traduce in decisioni di campo più rapide, pulite e sostenibili.

Dal NOI Techpark di Bolzano, con il supporto dei centri di ricerca locali, PlantVoice è passata dai prototipi ai filari: meno acqua e input, più uniformità dei frutti, e soprattutto dati che diventano azioni. Dati che non restano nel cassetto: grazie a una partnership dedicata, finiscono anche nei bilanci ESG, spostando la sostenibilità dal racconto all’evidenza numerica.

In questa conversazione, Beccatelli racconta perché sono partiti dai grandi gruppi, come funziona l’AI “a due livelli”, che tipo di supporto viene dato agli agricoltori e quali sono le prossime mosse tra crescita industriale e nuove sedi. Un viaggio dal laboratorio al campo, dove a parlare sono le piante.

Partiamo dalle origini: com’è nata PlantVoice e cosa fa, in concreto, la vostra tecnologia?

PlantVoice nasce nell’ottobre 2023 da me, mio fratello Tommaso e Pierluigi. Io arrivo dalla chimica e dalla sensoristica, Tommaso ha una forte esperienza nell’additive manufacturing ed è anche imprenditore agricolo, Pierluigi è avvocato. In passato avevamo già fondato insieme un’azienda sul monitoraggio fisiologico per atleti: quell’esperienza ci ha dato metodo e competenze che abbiamo trasferito al mondo vegetale con un approccio innovativo, realizzando sensoristica per valutare lo stato delle piante. Oggi utilizziamo un minuscolo “innesto” nel fusto -adatto al monitoraggio di viti, ulivi, e alcune categorie di fruttiferi- per leggere direttamente i segnali fisiologici della pianta, come salute, stress e risposta agli input. Il risultato è molto pratico: frutti migliori e più uniformi con meno acqua, utilizzo di fertilizzanti e fitofarmaci. In altre parole, più valore per l’azienda agricola con un impatto ambientale inferiore.

Bolzano è diventata la vostra base. Che ruolo ha avuto l’ecosistema locale nel vostro sviluppo?

Decisivo. Siamo entrati in incubazione con spazi, rete e coaching. Sul fronte R&D, ricerca e sviluppo, collaboriamo con Laimburg ed Eurac Research e abbiamo attivato l’European Digital Innovation Hub che ci ha permesso di reingegnerizzare tutta la parte elettronica e di analisi dei dati. Insieme a Eurac abbiamo ottenuto anche un Fusion Grant della Fondazione Cassa di Risparmio, che ci ha permesso di spingere la tecnologia nei settori melicolo e vitivinicolo. Inoltre, con il supporto su finanza agevolata (europea e nazionale) e mentorship molto concrete, abbiamo accelerato sia la roadmap sia il percorso per la protezione della proprietà intellettuale.

Sul mercato siete partiti dai grandi gruppi. Perché questa scelta e con chi state lavorando?

I grandi hanno un’importante struttura tecnica e un background scientifico molto solido. Si tratta di banchi di prova ideali per la sperimentazione e la validazione del prodotto. Inoltre, grazie a questi player (che generalmente detengono grandi ettari destinati alla coltivazione) è possibile validare il prodotto coprendo una superficie molto ampia. Un importante vantaggio è rappresentato anche dalla “reputazione” che si crea nella collaborazione con i grandi gruppi: una garanzia di qualità che permette poi di scalare più facilmente sui produttori medio-piccoli. Ci siamo concentrati fin da subito su filiere ad alta redditività per ettaro: kiwi “club” con realtà come Salvi Vivai, mele come la Pink Lady, i piccoli frutti con Sant’Orsola; nel vino collaboriamo con gruppi come Mezzacorona e Cavit, oltre a cantine più piccole come Maso Martis.

Tra gli utilizzi del dispositivo, uno dei più interessanti riguarda l’incrocio della vostra soluzione con la reportistica nei bilanci di sostenibilità e nella valutazione dei parametri ESG. Come ci arrivate dai vostri sensori?

Questa linea nasce da un nostro socio, Massimo Ferri, con noi fin dalla fondazione: oltre ad averci supportato su piattaforma e algoritmi di intelligenza artificiale, ha avviato insieme a uno startup studio milanese la realtà ESG Max. La partnership è stata quasi inevitabile, perché la reportistica ESG si appoggia spesso su analisi qualitative, mentre avrebbe bisogno di numeri solidi. Il nodo è l’oggettività dei dati. Noi la portiamo dal campo misurando effetti reali – per esempio il risparmio idrico – e, attraverso un tool nativo, questi dati vengono preparati e confluiscono direttamente nel report di sostenibilità. Un’integrazione così funziona solo se c’è allineamento e fiducia tra i team: il risultato non è la semplice somma delle parti, ma un prodotto più completo. La nostra è una visione olistica: mappiamo ogni fonte dati dell’azienda agricola, la convogliamo in un ambiente unico e la rendiamo oggettiva sia per far risparmiare e guadagnare l’impresa, sia per produrre una reportistica utile in banca e per l’accesso alle filiere della GDO (della grande distribuzione organizzata, ndr). In breve, la sostenibilità non può restare un’idea, deve essere anche conveniente dal punto di vista economico, e la tecnologia è ciò che la rende praticabile.

E l’intelligenza artificiale dove entra?

Su due livelli che si parlano tra loro. Anzitutto elaboriamo i segnali elettrici grezzi del sensore con algoritmi dedicati. Poi intrecciamo quei segnali con meteo, suolo e altre fonti per riconoscere pattern e legare i comportamenti fisiologici alle cause. All’inizio, con pochi dati, lavoravamo più di statistica; man mano che il dataset cresce, i sistemi migliorano nell’identificare le anomalie. Stiamo passando da un semplice segnalatore di problemi a un vero supporto alle decisioni: non solo “c’è un’anomalia”, ma anche che cosa conviene fare quando si presenta. Tutto questo cammina sulla qualità e sulla continuità della raccolta dati.

Quanto è “plug-and-play” per chi lavora in campo? Che supporto offrite?

Serviamo due tipologie di clientela, B2B (commercio interaziendale, ndr)  e B2C (consumatori, ndr). Nei grandi gruppi spesso è sufficiente la strumentazione: il sistema è auto-installante – l’agricoltore lo mette in campo in autonomia -, gli alert arrivano subito e gli andamenti si leggono con facilità. Quando però si vuole trasformare quei segnali in miglioramenti produttivi, entra in gioco la componente fisiologica/agronomica: se l’azienda non la possiede internamente, offriamo pacchetti B2C con call quindicinali dei nostri tecnici per rendere operative le informazioni e gli avvisi su irrigazione, nutrizione, difesa e gestione di frutteti o vigneti.

Numeri, capitali e prossimi step?

Abbiamo recentemente chiuso un round da 500 mila euro con una fondazione bancaria, un gruppo industriale e alcuni business angels; rientra in un blend che include debito bancario e ha abilitato contributi pubblici. Nel frattempo abbiamo consolidato il brevetto internazionale con copertura estesa a circa l’80% della superficie agricola di riferimento, rafforzato il team e raggiunto circa 60 clienti, con molti dispositivi già in campo che inviano dati. Stiamo aprendo una sede a Verona, anche produttiva, per ragioni logistiche. La raccolta del round di finanziamento è stata piccola e non l’abbiamo nemmeno etichettata come “seed”: non volevamo diluirci con valutazioni basse e avevamo la liquidità per centrare gli obiettivi. Così preserviamo la governance e puntiamo a una Series A a inizio 2026, con mercato e product-market fit già validati e una fase di scale-up sorretta da metriche solide.

La vostra “north star” in una frase?

Portare su larga scala una tecnologia capace di ottimizzare qualunque coltivazione, a basso costo e su più continenti. Se serve un’immagine scherzosa, quello che mi piacerebbe che diventasse Plantvoice è un vero e proprio:“Facebook delle piante”.

Nell’immagine in apertura, da sinistra a destra, Matteo e Tommaso Beccatelli 

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