
Prosegue il viaggio nella Consulta provinciale per l'integrazione. Le interviste a Erjon Zeqo e Raja Shahed
Bolzano. Dal 2007, oltre 39.700 persone si sono trasferite in Alto Adige, spinte soprattutto da motivazioni lavorative. È quanto emerge dall’ultima edizione del Mercato del lavoro news, pubblicata dall’Osservatorio provinciale. Di questi nuovi arrivati, circa 28.300 risiedono ancora oggi sul territorio. La comunità migrante è oggi composta da oltre 140 nazionalità: in testa ci sono cittadini italiani (30%), seguiti da Romania, Albania, Germania, Pakistan, Ucraina, Marocco e Slovacchia.
Numeri che raccontano un Alto Adige sempre più eterogeneo, dove la sfida dell’integrazione diventa un tema strutturale. Un tema che avevamo già cominciato a esplorare con l’intervista a Martha Jimenez, membro della Consulta provinciale per l’integrazione. Torniamo ora a parlarne attraverso le storie e le riflessioni di altri due protagonisti di questo organo, che nasce proprio per favorire il dialogo tra istituzioni, società civile e cittadini stranieri.
Il primo è Erjon Zeqo, vicepresidente della Consulta e ricercatore di Eurac Research. La seconda voce è di Raja Shahed, informatico di origine bengalese che da oltre dieci anni lavora nel sociale, oggi impegnato a Casa Noah, centro di accoglienza per richiedenti asilo gestito dalla Caritas.
L’intervista a Erjon Zeqo
Erjon Zeqo
Erjon Zeqo è ricercatore di Eurac Research a Bolzano nell’ambito del diritto delle minoranze e dell’autonomia. Vive in Alto Adige dal 1996, un percorso che gli ha regalato una conoscenza diretta e profonda delle dinamiche migratorie e dell’inserimento dei nuovi arrivati. È vicepresidente della Consulta provinciale per l’integrazione, piattaforma di dialogo tra Giunta, Pubbliche Amministrazioni locali, mondo economico, sindacati e terzo settore. Accanto alla ricerca conduce attività di formazione e consulenza per diverse istituzioni e ONG, traducendo i dati in politiche inclusive.
Qual è stato l’impatto con la realtà altoatesina, soprattutto sul piano linguistico e sociale?
L’italiano lo parlavo già: una fortuna che mi ha risparmiato parecchi ostacoli. Il vero scoglio è stato il tedesco. A scuola l’avevo studiato un paio d’anni, poi mi sono iscritto a un corso di perfezionamento; arrivato a Bolzano, però, il dialetto sudtirolese mi sembrò una lingua a parte. Dopo un soggiorno in Austria e Germania, sono tornato in Alto Adige, ho ripreso fiducia, ma quei primi mesi sono stati pesanti: ero praticamente solo, senza familiari e con pochissimi contatti.
Chi l’ha sostenuta in quei momenti?
La spinta decisiva è venuta dagli altri migranti. All’epoca la comunità albanese – e, in generale, le comunità straniere – funzionava come un piccolo sistema di mutuo appoggio: qualcuno ti indicava una casa in affitto, qualcun altro una posizione lavorativa disponibile. Era un tessuto di solidarietà spontanea che oggi si è in parte dissolto, complice l’aumento dei numeri e il ritmo più frenetico della vita quotidiana. Senza quella rete informale, però, i miei primi passi sarebbero stati molto più incerti. Da parte mia c’è stata fin da subito la voglia e la disponibilità di mettersi a disposizione per aiutare gli altri migranti. Una sorta di restituzione dell’aiuto iniziale ricevuto a favore dei nuovi arrivati dopo di me.
E le istituzioni locali, allora come oggi, che tipo di sostegno riescono a garantire?
Oggi l’offerta di servizi è decisamente più ampia rispetto agli anni Novanta, ma restano due problemi: la frammentazione e la mancanza di coordinamento. Un ufficio si occupa di lavoro, un altro di corsi di lingua, un altro ancora di alloggi. Il risultato è che la stessa persona deve ricominciare da capo ogni volta, senza che gli operatori abbiano una visione comune del suo percorso. Nelle città come Bolzano o Merano la pluralità dei servizi aiuta; nelle valli, invece, ci si affida spesso alla parrocchia, alla Caritas o a pochi volontari di buona volontà. Quando gli sportelli esauriscono i posti disponibili, i bisogni più urgenti rischiano di restare sospesi, una situazione purtroppo molto frequente.
Da quest’esperienza personale è approdato alla Consulta provinciale per l’integrazione. Come funziona questo organo e quali limiti vuole superare?
La Consulta è stata istituita con la legge provinciale 12 del 2011. Si rinnova a ogni legislatura, attualmente siamo alla terza consiliatura. I suoi diciotto membri sono scelti sulla base del curriculum e delle attività svolte nel campo dell’integrazione: nove provengono da Paesi terzi, comunitari o extracomunitari, e nove rappresentano la parte istituzionale, cioè i dipartimenti provinciali – scuola, cultura, lavoro, sociale – insieme a esponenti del mondo economico e sindacale. Per legge la presidenza spetta all’assessora provinciale competente in materia sociale; la vicepresidenza, che ora ricopro, serve a tenere insieme le tante voci presenti al tavolo e a trasformarle in proposte operative.
Il principio è chiaro: mettere attorno a un tavolo chi vive i problemi di integrazione sulla propria pelle e chi la gestisce dall’interno delle istituzioni, affinché le politiche pubbliche ne tengano conto. Tuttavia, la Consulta può esprimersi soltanto quando la Giunta decide di interpellarla. Se notiamo una criticità – ad esempio la questione della crisi abitativa, che include l’accesso agli alloggi sociali o a bassa soglia – non possiamo trasmettere subito un parere: dobbiamo attendere la richiesta formale. Stiamo lavorando per rimuovere questo sbilanciamento, proponendo di modificare quel passaggio in modo da poter inviare osservazioni e raccomandazioni anche di nostra iniziativa. In questo modo la Consulta potrà diventare un organo capace di fornire indicazioni tempestive e di contribuire in tempo reale a un sistema di integrazione che, per funzionare davvero, ha bisogno di risposte puntuali e coordinate.
Finora ha spiegato come la Consulta cerca di incidere sulle scelte politiche. Può descrivere un caso concreto in cui il vostro intervento è stato decisivo?
Un esempio emblematico riguarda la delibera “Convivere in Alto Adige”, che lega alcuni contributi familiari alla frequenza di corsi su lingua e cultura locali. Sulla carta l’intento è condivisibile, ma l’applicazione rischiava di discriminare chi vive in zone remote o ha orari di lavoro incompatibili con le lezioni. La Consulta è intervenuta nella fase dei criteri attuativi: abbiamo chiesto che si valutassero i casi singolarmente, che l’offerta formativa raggiungesse le valli più isolate o, in alternativa, che le persone impossibilitate fossero esentate dall’obbligo. Così si è evitato che un requisito di integrazione diventasse una barriera.
Oltre a valutare le delibere provinciali, su quali altri fronti vi state muovendo?
All’interno del tavolo siedono referenti dei dipartimenti provinciali – scuola, lavoro, sociale – perciò possiamo confrontarci direttamente su corsi di lingua, diritto allo studio, accesso al mercato del lavoro e iniziative culturali. Ma vogliamo spingerci oltre, aprendo un dialogo con gli enti statali e i Comuni.
Penso alla questura: i tempi di rilascio o rinnovo dei permessi di soggiorno si sono allungati al punto che, quando il documento arriva, è già in scadenza. O, ancora, agli uffici anagrafe che talvolta rifiutano l’iscrizione a cittadini stranieri o ignorano documenti tradotti e legalizzati. Perfino in carcere ho visto negare la residenza ai detenuti, con ripercussioni a cascata su diritti e tutele sociali. La Consulta raccoglie queste segnalazioni, avvia un confronto e, se necessario, inoltra i casi alla Difesa civica o al Centro antidiscriminazione.
Come riuscite a gestire temi così diversi con riunioni soltanto due o tre volte l’anno?
La soluzione sono le sottocommissioni tematiche. La Consulta plenaria si riunisce almeno due volte l’anno, ma le sottocommissioni lavorano con calendari più serrati e approfondiscono questioni specifiche: in questi mesi, ad esempio, stiamo redigendo il regolamento sull’elenco dei mediatori interculturali e organizzando una conferenza sulla Giornata della lingua madre. Se la proposta è di carattere tecnico, la Consulta può autorizzare la sottocommissione a trasmetterla direttamente al dipartimento competente; in altri casi la discutiamo e la approviamo collegialmente prima di inviarla agli interlocutori istituzionali.
Qual è il suo ruolo in questo assetto operativo?
La vicepresidenza è l’unica carica elettiva interna. Dopo due mandati da semplice membro ho deciso di candidarmi per fare sintesi fra le diverse sensibilità presenti. Coordino i gruppi di lavoro, agevolo il dialogo con le istituzioni e cerco di trasformare le sollecitazioni che riceviamo – dalle code davanti alla questura ai dubbi delle anagrafi comunali – in proposte concrete. In fondo il valore della Consulta sta proprio qui: essere un luogo dove l’esperienza diretta dei cittadini stranieri incontra la macchina amministrativa, con l’obiettivo di far funzionare meglio entrambe
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Un altro membro della Consulta è Raja Shahed. Esperienza di lungo corso, tra volontariato internazionale, impegno locale a Merano e attività con i richiedenti asilo, Shaded offre uno sguardo complementare a quello di Zeqo. Entrambi sottolineano l’importanza di reti solidali e dell’accesso ai servizi essenziali, ma anche una criticità ricorrente: la difficoltà abitativa, ancora oggi uno dei principali ostacoli a una piena integrazione in Alto Adige. Due storie diverse, ma unite dalla volontà di rendere il territorio più aperto, equo e preparato ad accogliere.
L’intervista a Raja Shahed
Raja Shahed
Come è arrivato in Alto Adige?
È successo quasi per caso. Studiavo a Parigi e vivevo lì come studente, ma le condizioni erano difficili. Un mio amico, che si era trasferito a Silandro per amore, mi raccontò dell’Alto Adige e delle opportunità di lavoro stagionale. Quando sono arrivato qui, è stato come trovare un paradiso rispetto alla frenesia parigina: un ambiente più tranquillo e accogliente, dove ho rapidamente costruito una rete di amicizie.
E’ stato facile ambientarsi in Alto Adige?
Decisamente sì. La politica locale a Merano si è dimostrata molto aperta. Nel 2005 sono stato eletto vicepresidente della Consulta Comunale per gli Extracomunitari di Merano, vincendo con la maggioranza dei voti. Sono rimasto in carica per tre mandati, per un totale di 14 anni. Ho sempre creduto nell’importanza del volontariato: ho lavorato con la Croce Rossa, la Protezione Civile e ho partecipato a missioni in Africa. Inoltre, ho fondato due ONG: una in Kenya e l’altra in Malawi, per aiutare gli orfani e promuovere la gestione dell’emergenza, mettendo a frutto l’esperienza maturata con la Nato e le Nazioni Unite.
Quali sono stati i progetti più significativi portati avanti con la Consulta di Merano?
Nella Consulta Comunale di Merano abbiamo sempre cercato di essere la voce dei nuovi cittadini, portando avanti progetti per favorire l’integrazione. Tra le iniziative più importanti, ricordo le feste interculturali e i progetti di inclusione sociale per agevolare il rilascio di permessi di soggiorno e l’accesso alle abitazioni.
Quali sono, secondo lei, i punti di forza e le criticità dell’integrazione in Alto Adige?
La disponibilità di lavoro in questo territorio è un elemento chiave: chi ha voglia di lavorare trova facilmente un’occupazione. Tuttavia, uno dei maggiori problemi rimane la carenza di alloggi. In Alto Adige, trovare una casa è molto complicato, e questo rappresenta un ostacolo per chi cerca di stabilirsi a lungo termine. Risolvere questa criticità sarebbe fondamentale per migliorare ulteriormente il processo di integrazione.
Cosa consiglierebbe a chi arriva per la prima volta in Alto Adige?
Direi di rivolgersi subito al Comune per ottenere informazioni e contattare le Consulte per l’integrazione. È importante entrare in contatto con le associazioni locali e partecipare agli eventi interculturali. Questo permette di creare legami e orientarsi meglio nel nuovo contesto.