Assalto alla Fortezza per un sì alla scuola bilingue

Mancano pochi minuti alle otto quando i fratelli Asif e Shaheen (nomi di fantasia) salgono le scale della scuola elementare di Fortezza. Raggiunto il primo piano, Asif gira a destra per recarsi nelle aule della scuola di lingua italiana, mentre la sorellina Shahenn procede a sinistra per quelle in lingua tedesca. Ai due bambini sembra tutto normale, le lingue non sono un problema, vengono dal Pakistan, il padre parla urdu e italiano, la madre urdu e inglese. Asif e Shaheen hanno, quindi, buone probabilità di riuscire a parlare quattro lingue ancor prima della maggiore età. Rispetto alla razionalità del sistema scolastico, invece, siamo quasi certi che quando l’assessore provinciale alla cultura tedesca Anton Zelger sosteneva «Più ci dividiamo più ci comprenderemo» non si riferisse ad Asif e Shaheen e nemmeno ai loro 49 compagni di scuola, quasi tutti stranieri.* Torno a Fortezza proprio per capire meglio cosa succeda in quella scuola. Sono quasi le nove, ma il sole illumina solo la parte sud della cittadina, scuola compresa. Una targa all’esterno dell’edificio precisa che lì è ospitata la scuola elementare in lingua italiana “Collodi” e la “Deutschsprachige Grundschule”, la “scuola elementare in lingua tedesca” a cui non hanno dato nome visto che a Fortezza non ce ne sono altre.

Salgo le scale e mi dirigo verso destra, dove mi accoglie Paola Bonsi, unica insegnante di ruolo delle scuola italiana. Ci presentiamo e mi fa entrare in aula per incontrare gli alunni, spiego molto brevemente perché sono lì e mi accomodo alle loro spalle per non disturbare. Gli alunni sono sette, cinque bambine e due bambini, sembrano attenti e preparati, quelli che rispondono lo fanno in ottimo italiano. C’è chi non vede l’ora di far vedere che conosce le risposte e chi fa di tutto per scomparire sotto al tavolo e non essere notato. Esattamente come in tutto il resto del mondo. Dopo pochi minuti, l’insegnante assegna un compito e mi chiede di spostarci in una stanza a fianco dove poter parlare liberamente.

Non volendo farle perdere troppo tempo, vado dritto al punto: cosa pensa dell’idea del sindaco di passare alla scuola bilingue? «Sono sempre stata d’accordo –  premette – , ma ora il problema è  un altro, la sezione italiana rischia di chiudere perché l’anno prossimo gli iscritti si ridurranno a 11, tra due anni ne perderemo altri 5. Potremmo non avere numeri sufficienti». Le speranze che nuovi ingressi rafforzino la popolazione scolastica italiana sembrano piuttosto vane. «Nessuno si è lamentato del nostro lavoro e, anzi, ci viene mostrato grande apprezzamento, ma nonostante questo, pochissimi decidono di iscriversi alla scuola italiana e li posso capire. Il tedesco permette di lavorare anche in Austria, Germania e Svizzera, mercati del lavoro più interessanti di quello italiano».

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A questo si aggiungono le differenti offerte didattiche: «La scuola elementare tedesca ha maggiori risorse e quindi maggiori insegnanti e può offrire servizi che noi non possiamo permetterci. Per esempio: un paio di pomeriggi in più alla settimana o i corsi di tedesco per i genitori. Noi facciamo come possiamo con le risorse a disposizione».

Paola Bonsi sembra animata da due sentimenti contrastanti, da una parte la frustrazione accumulata nel doversi “arrangiare” per affrontare difficoltà che a volte, si potrebbero risolvere con un minimo di raziocinio, dall’altra, la soddisfazione di riuscire ad ottenere dei risultati grazie al suo lavoro e alla sua metodologia di insegnamento: «Io insegno qui perché mi sono trasferita a Vandoies, ho accettato questo lavoro come una sfida, ma mi sono resa conto che non la si può vincere. Sono l’unica insegnante di ruolo, le mie colleghe cambiano ogni anno e delle prospettive future ho già parlato. Questa scuola sarebbe un laboratorio interessantissimo, se ne vorrebbero occupare anche alcuni docenti dell’Università di Bolzano, ma in questo contesto è impossibile programmare. Non posso negare, però, che nonostante le difficoltà, riusciamo ad insegnare ai bambini in base alle loro esigenze e non ai programmi scolastici previsti ogni anno e i risultati sono positivi».

A quanto pare, una scuola pluriclasse può avere anche qualche vantaggio : «Abbiamo suddiviso gli alunni in due sezioni, in una sono riuniti gli alunni di prima, seconda e una parte della terza, nell’altra, una parte della terza, la quarta e la quinta. Le difficoltà vengono superate con l’impegno e il numero ridotto e le differenze di età possono essere anche un vantaggio, i più grandi aiutano i più piccoli e tutti si sentono coinvolti».

Quel che emerge con maggior forza, è che per questi bambini la scuola non è un obbligo ma una necessità fondamentale. Non hanno strumenti di integrazione e apprendimento alternativi, in famiglia spesso si parla un’altra lingua e Fortezza non offre molte altre possibilità di svago e intrattenimento. Proprio mentre parliamo di questo, sentiamo le urla dei bambini della scuola materna che sorge a fianco dell’elementare. Sono usciti per giocare all’aria aperta, provengono da ogni parte del pianeta, ma tutti, senza eccezione, corrono dietro alle bolle di sapone fino a che non spariscono al primo contatto. Preferiamo, comunque, fuggire dalle suggestioni delle facili metafore per chiudere l’intervista con un’ultima annotazione: «Tra le varie differenze rispetto ad altre scuole – conclude Paola Bonsi –  qui ne abbiamo una indubbiamente positiva. Non subiamo nessuna ingerenza da parte dei genitori, non ci viene contestato il programma di insegnamento e nemmeno l’approccio che abbiamo con gli alunni. Da questo punto di vista molte colleghe mi invidiano».

Il metodo scelto sembra funzionare, per tutto il tempo dell’intervista non si è sentita volare una mosca, i bambini hanno svolto i compiti e all’insegnante è bastato buttare la testa oltre la soglia per verificare che tutto fosse a posto. Terminata la chiacchierata, Paola Bonsi torna in aula e, poco dopo, i bambini si preparano per la ricreazione in cortile. Si tolgono le crocs, indossano le giacche e in maniera decisamente più disordinata dei loro vicini della scuola tedesca che sono già pronti sulle scale, scendono in cortile.

Lì, ovviamente, la divisione tra italiani e tedeschi scompare o, meglio, si diluisce molto. Quattro bambini apparentemente provenienti dall’Asia meridionale giocano a “Ce l’hai” in tedesco, altri quattro giocano a ping pong, il gruppo più numeroso si raduna attorno alla giostra girello. Qualcuno tira da una parte, altri dalla parte opposta, così la ruota resta ferma. Se tirassero tutti nella stessa direzione si risolverebbe il problema, ma sembrano divertirsi moltissimo anche così. Mentre prendo appunti, mi si avvicina una bambina della classe a cui ero stato presentato e mi chiede come mi chiamo. Io faccio lo stesso con lei, poi le domando da dove viene. Mi guarda perplessa, butta lì un rapido “non lo so” e corre via.

*La scuola elementare di lingua italiana ospita 13 alunni di cui 3 italiani e 10 stranieri, quella tedesca 38, 22 stranieri, 12 con doppia cittadinanza e 4 con la cittadinanza italiana. Dati forniti dalle intendenze scolastiche.  

 

Massimiliano Boschi

Quasi tutto quel che di importante e “speciale” accade in Alto Adige viene letto, spiegato e persino giustificato, con quanto avvenuto nel passato. Oggi come venti o trent’anni fa. Una “lettura” che può funzionare finché si discute di proporzionale etnica o di toponomastica, ma che oggi risulta fuorviante. E’ sufficiente camminare per le periferie del capoluogo o visitare Fortezza, Salorno o il Brennero per comprenderlo. Sarà fuori moda, ma per sostenere una tesi occorrono fatti, dati e circostanze. Per questo è nato AltoAdige.doc. Ecco la terza inchiesta, la prima riguardava l’ospedale di Bolzano, la seconda ci ha raccontato come leggere il passato a volte ci porti a capire meglio fenomeni (e loro pesi) attuali. La terza puntata è stato un viaggio… in Calabria, o meglio nell’enclave calabra (ma non solo) formata dai lavoratori del BBT. Operai che fanno un lavoro massacrante, lontani da casa. Perché costruire il futuro, ancor oggi, passa spesso attraverso sudore e sacrifici. La quarta, invece, è stato un viaggio nella toponomastica: probabilmente un falso problema, ecco perché. Ma il tunnel di base del Brennero, e il mondo che ci sta accanto, ha fatto molto parlare di sé. E noi ci siamo tornati per il quinto articolo. Mentre abbiamo cambiato argomento per l’ultimo nostro approfondimento: un’intervista alla procuratrice capo del Tribunale dei Minori di Bolzano. Per capire, o meglio cercare di farlo, le vere radici di fenomeni di violenza giovanile. Nella sesta puntata abbiamo raccontato la storia di K., e delle sue peripezie, per poi virare sul turismo (e la sua venerazione) e sul melting pot culturale di Fortezza. 

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