Benno Simma e la sua Joy: quando la libertà è un taccuino

Sette anni di disegni suddivisi su cinquantasei taccuini. Questo è il corpo centrale di «Joy», l’esposizione che verrà ospitata dal 26 maggio al 9 giugno al Kunstforum Unterland di Egna/Neumarkt. L’autore delle opere, nonché proprietario dei taccuini, è Benno Simma, musicista e cantante, designer e disegnatore, ma soprattutto ex architetto (ora in pensione). Perché i disegni inseriti in questi taccuini (formato 90 x 140 mm) riflettono anche un percorso di emancipazione, quello dalla professione e dall’ordine degli architetti. Benno Simma non si limita ad ammetterlo, lo sottolinea fin quasi a rivendicarlo: «Attraverso i disegni sui taccuini, per esempio, ho incominciato a riacquistare la capacità di rappresentare visi e figure umane allontanandomi dalla geometria dei disegni da architetto. Ho iniziato utilizzando il bianco e nero e linee precise ispirandomi ai fumetti, poi ho trovato una mia strada personale».

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Tanto vale partire dall’inizio.
«Inizialmente utilizzavo i taccuini solo per fermare delle immagini, ma non avevo la pretesa di arrivare alla forma artistica. Erano semplici annotazioni di cose che vedevo, non avendo un mio linguaggio personale, mi ispiravo all’unico disponibile, quello dei fumetti. Come per tutte le cose che non hanno pretese artistiche, si  finisce per cercare delle gabbie, dei recinti in cui stare comodi».

Poi la folgorazione?
«No, mi sono liberato mano a mano, continuando a raccogliere immagini ma provando a esprimermi artisticamente. Da questo punto di vista, sono state molto utili le mostre d’arte che mi hanno spinto a spulciare nel bagaglio degli artisti. Mi sono serviti da stimolo, tanto che oggi mi permetto persino di prenderli bonariamente in giro, come mostrano alcuni quadri che saranno esposti a Egna. I disegni sono molto meno definiti, più colorati ma, soprattutto, molto più liberi. Non a caso, la mostra si intitola Joy, si rifa ai sentimenti provati i gioventù, tanto che ho anche inserito il simbolo del fate l’amore e non la guerra nella .

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Come dimenticarlo, si stanno celebrando i cinquant’anni dal 1968, ma la mostra festeggerà un altro importante anniversario…
«Il 14 maggio ho compiuto 70 anni e l’inaugurazione della mostra sarà anche una festa di compleanno con musica dal vivo e buffet».

Tornando all’arte, i disegni sembrano mostrare un percorso particolare: non un salto nel passato, ma un lento ritorno verso gli anni della gioventù. E’ un’impressione sbagliata?
«No, è una lettura possibile, anzi temo sia proprio così. Da ragazzo avevo aspirazioni artistiche che mio padre ha preferito stroncare. Diceva che non avrebbe finanziato studi all’Accademia di belle arti che mi avrebbero trasformato in un disoccupato. Così mi ha spinto verso la facoltà di Architettura e ho finito per pensare che avesse ragione e ho incominciato a comportarmi responsabilmente. Quando ho deciso di liberarmi di questa responsabilità, ho incominciato a riannodare il filo che avevo abbandonato vent’anni prima. Però è vero, non è stato un salto all’indietro, ma un lento percorso alla ricerca del bandolo della matassa».

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E’ permesso citare due episodi che potrebbero avere influenzato questa decisione?
«Prego».

La mostra “Art drive in” al parking Thermae di Merano (2003) e la nascita della facoltà di Design dell’Università di Bolzano.
«Sì. Hanno influito molto. Ho curato la mostra Art drive in perché mi interessava inserire l’arte in un non luogo. Mi era stato richiesto perché uno degli ingegneri del parcheggio conosceva la mia aspirazione artistica. Fu un passaggio importante, perché mi ha riavvicinato agli artisti. Mentre mi ha allontanato da compagni di strada che mi criticavano perché non amavano le nuove terme. Un lavoro che ora non rifarei ma che è stato importante. Per quel che riguarda l’università, dirigevo un tema di professionisti del design e dell’arte che ha costituito l’accademia del design di Bolzano. Ci ispiravamo al Bauhaus e lavoravamo a un progetto trasversale di didattica. Purtroppo, la libera concezione di questa accademia mal si adattava alla rigidità accademiche. Io e altri professionisti siamo rimasti vittime di una legislazione universitaria che prevedeva che il comitato costituente fosse formato da almeno il 50% di docenti universitari e così siamo rimasti fuori da una facoltà che oggi fa anche cose interessanti nonostante il rigido apparato amministrativo. Si tratta di una vicenda che mi ha fortemente deluso, spinto verso altri campi e verso le origini. Mi si fosse aperta la strada accademica non avrei avuto togliermi tutte le soddisfazioni che mi sto togliendo adesso».

Come dicono i francesi, “chapeau”, a proposito, il cappello è ormai una parte fondamentale dell’abbigliamento…
«Mi piace molto, è un cappello a falda stretta simile a quello utilizzato dai giovani jazzisti, tanto che da qualche tempo è tornato in auge. Il mio è un ponte tra questo tipo di copricapo e un cappello classico. L’ho comprato a Montagnana, in Veneto, da un cappellaio che ha un’offerta vastissima. Credo rappresenti bene la sintesi tra il vecchio e il nuovo».

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